Voci della Grande Guerra

Per la più grande Italia: orazioni e messaggi Frase: #9

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AutoreD’Annunzio, Gabriele
Professione AutoreScrittore, poeta
EditoreTreves
LuogoMilano
Data1915
Genere TestualeDiscorsi
BibliotecaBiblioteca Polo Umanistico Università degli Studi di Salerno
N Pagine Tot133
N Pagine Pref
N Pagine Txt133
Parti Gold117-126 (10)
Digitalizzato Orig
Rilevanza2/3
CopyrightNo

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PAROLE DETTE IN UNA CENA DI COMPAGNI, ALL’ALBA DEL XXV MAGGIO MCMXV.

Compagni, è l’alba.

La nostra vigilia è finita.

La nostra ebrezza incomincia.

Come il pico di Marte percote la scorza della quercia laziale, un cuore misterioso urta stamani il petto del primo combattente.

Il confine è valicato.

Il cannone tuona.

La terra fuma.

L’Adriatico è grigio, in quest’ora, come la torpediniera che lo taglia.

Compagni, è vero:

Incredibile sembra l’evento, dopo tanta ambascia.

Si combatte con armi, si guerreggia la nostra guerra, il sangue sgorga dalle vene d' Italia:

Siamo gli ultimi a entrare nella lotta, e già i primi incontro alla gloria.

Or ecco, intorno, tutto è silenzio.

Roma tace.

I suoi lauri sono immobili come le sue colonne.

Che è questo silenzio:

Qual dio è presente:

Ascoltate.

Del silenzio che riempie la bocca dei suoi Archi, dei suoi Fori, delle sue Terme, dei suoi Circhi, Roma fa una potenza nuova, una potenza vivente e formidabile.

In questa prima notte di guerra, sotto un cielo tumultuante di nuvoli e di chiarori, il popolo non ha gridato, non ha ingombrato le vie, non ha agitato le bandiere, non ha minacciato né ingiuriato il nemico, non ha danzato intorno alle colonne venerande e alle statue illustri.

È rimasto in una gravità silenziosa che sembrava fare di lui una massa più compatta di quella che noi vedemmo addensarsi nella piazza del Campidoglio o sul Quirinale.

Tra i monumenti che la torbida notte rendeva più vasti e più solenni, la volontà del popolo sembrava inalzarsi come il più vasto e il più solenne dei monumenti.

Roma ridiveniva romana, come al tempo austero della sua republica.

Stanotte, a un tratto, noi abbiamo riavuto coscienza della romanità, nel senso più ampio di questa parola superba.

Il tempio della Fede publica, di quella dea ch’ebbe candido culto nel Lazio prima dell’avvento di Romolo, pareva riedificato e riaperto.

E taluno di noi si ricordava dei trofei che vi aveva appesi Germanico vittorioso su i Germani.

Ma, accanto al tempio della Fede, pareva riedificato e riaperto quello della Costanza virile.

Stanotte, nella prima ora della guerra, il popolo di Roma non ha gettato alle nubi un vano clamore ma in silenzio ha offerto il sacrifizio alle due divinità che stanno sopra l’azione: alla Fede e alla Costanza.

Severo spettacolo, maschio esempio.

O compagni, questa guerra, che sembra opera di distruzione e di abominazione, è la più feconda creatrice di bellezza e di virtù apparsa in terra.

Chi stanotte ha veduto Roma, bella indicibilmente, può partirsi dalla vita beato.

Più pura che la faccia di Minerva sotto allo scudo concavo, appariva sotto al cielo ingombro la sua faccia divina.

Noi l' abbiamo fissata dall’alto del colle, noi l’abbiamo contemplata con una ebrezza che moltiplicava il potere del nostro spirito e lo sollevava sopra l’errore del tempo.

La profondità di tutti i secoli è nello sguardo notturno di Roma.

Però il futuro è la sua palpebra che mai non si chiude.

Chi di noi dimenticherà quel rapimento:

Forse, nel giorno della vittoria, Roma non ci apparirà tanto bella.

In quel giorno il destino sarà compiuto, e noi potremo misurarlo.

Ma stanotte il destino era senza misura, e l’aspetto di Roma l’eguagliava in grandezza.

La speranza non aveva limiti.

Il sogno non aveva confini.

I muti lampi, che a tratti illuminavano l’orizzonte dietro le cupole, parevano i bagliori d’un’opera in fusione, i riverberi d’una creazione rovente.

Il solco di Romolo, disegno della città quadrata, stanotte sembrava divenuto la cintura della terra.

Ha detto un asceta nulla esser più reale d’una cosa poetica.

Oggi noi sentiamo, dinanzi a questo miracolo patrio, che la poesia è verità, che la poesia è realtà.

La decima Musa, la nomata nel grido Euplete Eurètria Energèia, la nomata nel grido umano coi nomi divini delle plenitudini e delle virtù, l’invocata da tutti nell’alba, la decima Musa ha tessuto il nostro nuovo destino.

Gli uomini conduttori della nazione hanno obbedito a un ritmo apollineo, hanno tradotto in atti un carme fatidico.

Questo lungo e penoso sforzo verso la vita ha qualcosa d’un mistero sacro.

La nostra ultima settimana è stata una vera «settimana di passione», a cui non è mancata nessuna angoscia, a cui non pure è mancato il sudore di sangue.

Si poteva dire:

«Madre, salvami da quest’ora;

ma per questo son io venuto in quest’ora.»

Abbiamo avuto sopra noi l’oscuramento della tempesta, l’oppressura del nembo, e alfine il bagliore subitaneo della folgore.

Non sapevamo quel che noi fossimo, non sapevamo quel che volessimo;

ed ecco, sappiamo quello che siamo, sappiamo quel che vogliamo.

La nostra certezza è salda perché generata dal dolore.

L’Italia ha partorito il suo futuro con uno spasimo atrocissimo;

ha ansiato prima di assalire;

ha sanguinato prima di combattere.

Nelle ultime notti, le grida della moltitudine sembravano grida d’implorazione verso un dio redentore:

«Domine, exaudi nos:»

Quando il dio ci ha esaudito, noi abbiamo cessato di esclamare.

Abbiamo serrato la nostra anima intorno alla nostra verità e le nostre mascelle sul nostro proposito.

Per ciò stanotte, nella prima ora della guerra, Roma è apparsa armata di silenzio.

È rimasta taciturna come chi guarda il proprio fato e si sente a lui pari, anzi a lui sovrastante.

Compagni, ecco l' alba.

E il sole stamani non vedrà nulla più grande di Roma, per l’universa terra.

Compagni miei, ecco fra poco l' aurora.

Vi guardo, e mi sembrate più belli.

I vostri volti sono così fermi che paiono riscolpiti dalla volontà secondo le più pure impronte della nostra razza.

Sembrate rinascere dal repentino amore, sembrate ridiventare fratelli nell’amore immortale.

Nessuno di voi, certo, sapeva di tanto amare questa Gran Madre.

Ma chi di noi primo saprà per lei morire:

C’è tra noi qualcuno già segnato, già eletto:

Foss’io colui:

Non mi mentisca il presagio, non m’inganni il presentimento.

Vi sovviene, compagni, d’un antico mio sogno:

Venivano per le vie de’vènti come uno stuolo d’aquile senza nido, le nove Sorelle, «lacere i pepli, sconvolte le chiome, odorate di sangue e d’incendio, ebre di risa e di pianti, tumultuose di forze atroci e d’amori ineffabili, piene i polsi di ritmi discordi».

E su la cima di un’alpe, che non era Libetro né Parnasso né Elicona, si posarono ansanti;

ma non cantarono, non intonarono l’inno.

Vi sovviene di quale sostanza, rimanendo elle in silenzio, creassero per l’uomo «una Voce più bella del Coro castalio»:

Aquile senza nido, ripresero il volo, balzarono a sommo del cielo;

senza traccia disparvero «inclinate il fianco sul vento».

Nessuno vide se risero o piansero.

Allora la decima Musa, la nomata Energèia, apparì, discese dal monte in mezzo agli uomini.

Questa è dessa, o compagni, la sola, a noi manifesta, fra noi presente.

Sentite il suo nume:

Non ama le misurate parole ma il sangue abondante.

Altre sono le sue misure, altri i suoi metri.

Ella nòvera le forze, i nervi, i sacrifizii, le battaglie, le ferite, gli strazii, i cadaveri;

nota i gridi i gesti i motti delle agonie eroiche.

Ella còmputa la carne abbattuta, la somma del nutrimento offerto alla terra perché smaltito lo converta in sostanza ideale, lo renda in spirito perenne.

Ella prende il corpo orizzontale dell’uomo come misura unica per misurare il più vasto destino.

O compagni, questo non è il gelo dell' alba ma un brivido più profondo.

E siamo tutti pallidi.

Il sangue comincia a sgorgare dal corpo della Patria.

Non lo sentite:

L’uccisione comincia, la distruzione comincia.

Uno della nostra gente è morto sul mare, uno della nostra gente è morto sul suolo.

Tutto quel popolo, che ieri tumultuava nelle vie e nelle piazze, che ieri a gran voce domandava la guerra, è pieno di vene, è pieno di sangue;

e quel sangue comincia a scorrere, quel sangue fuma ai piedi d’una grandezza invisibile, d’una grandezza più grande che tutto quel popolo.

Mistero sublime, che nulla eguaglia nell’universo.

Noi ne tremiamo e ne siamo smorti.

Ma anche noi non abbiamo ormai altro valore se non quello del nostro sangue da versare;

non possiamo essere misurati se non a livello del suolo conquiso.

Ecco l’alba, o compagni, ecco la diana;

e fra poco sarà l’aurora.

Abbracciamoci e prendiamo commiato.

Quel che abbiamo fatto è fatto.

Ora bisogna che ci separiamo e che poi ci ritroviamo.

Il nostro Dio ci conceda di ritrovarci, o vivi o morti, in un luogo di luce.