Voci della Grande Guerra

Comitati segreti sulla condotta della guerra: giugno-dicembre 1917 Frase: #333

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AutoreCamera dei deputati
Professione AutorePolitico
EditoreArchivio storico della Camera dei deputati
LuogoRoma
Data1967
Genere TestualeRelazione
BibliotecaBiblioteca di Area Umanistica dell'Università di Siena
N Pagine TotIX, 249
N Pagine Pref9
N Pagine Txt249
Parti Gold[107-125] + [1-106] + [126 - 230]
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COMITATO SEGRETO del 13 dicembre 1917.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE MARCORA

La seduta incomincia alle ore 15.

PRESIDENTE.

Hanno chiesto congedo: l’onorevole Grosso Campana, di giorni 8, per motivi di famiglia;

gli onorevoli Ginori-Conti, di giorni 10, Petrillo di 5, Mosca Gaetano di 3, per motivi di salute;

l’onorevole Grassi di giorni 8, per ufficio pubblico.

(Sono accordati).

TURATI.

Ha chiesto la parola per un richiamo al regolamento.

Ricorda un suo ordine del giorno presentato alla Camera nella passata discussione in Comitato segreto, circa i limiti della discussione, che fu approvato.

Propone che la presente discussione si basi sopra una piattaforma utile e pratica, e cioè che il Governo intervenga per primo a dare la intonazione alla discussione stessa.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE, presidente del Consiglio.

Fa una breve dichiarazione.

Egli sarebbe per primo lieto che si venisse ad un accordo per limitare la discussione sugli argomenti sulla politica della guerra e sulla politica estera, dispostissimo ad accordarsi in riguardo alla procedura.

Fa presente la convenienza dell’intervento anche del sottosegretario di Stato alla Guerra in queste sedute in Comitato segreto.

(La Camera approva questa proposta).

PRESIDENTE.

Comunica che gli onorevoli Colajanni, Valvassori-Peroni ed altri hanno chiesto che vengano ammessi, nelle tribune, i senatori del Regno alle sedute in Comitato segreto.

Ricorda che, avendo la Camera nella seduta di ieri deliberato di seguire le stesse norme adottate nel precedente Comitato segreto, non può oggi stabilire altra procedura.

Aggiunge che lo stesso Presidente del Senato ha a lui dichiarato che riteneva normale quanto fu stabilito per il precedente Comitato segreto.

Spiega le ragioni per le quali non conviene modificare quanto già è stato deliberato.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE, presidente del Consiglio.

Interviene nella discussione e dice che non si tratta di deliberare intorno ad un atto di cortesia, ma bensì ad una questione di ordine esclusivamente costituzionale.

I deputati sono vincolati dal segreto, ma i senatori, intervenendo come pubblico, non avrebbero tale vincolo.

E quindi le sedute non avrebbero più il vero carattere di Comitato segreto.

Perciò non ammette l’intervento dei senatori nelle tribune della Camera in Comitato segreto.

PRESIDENTE.

Interpella l’onorevole Colajanni, primo firmatario della proposta, per conoscere se insista o meno nella sua proposta.

Non essendo presente l’onorevole Colajanni, dà la parola all’onorevole Valvassori-Peroni.

VALVASSORI-PERONI.

Spiega la ragione della proposta fatta da molti colleghi e conclude dichiarando che ritira la proposta stessa.

FERRI GIACOMO.

Dichiara di far propria la proposta.

PRESIDENTE.

Dichiara che la questione è già esaurita.

ALFIERI, ministro della Guerra.

Onorevoli deputati.

Sento tutta la gravità del parlare a voi di argomento come quello che da oltre un mese incombe così fortemente su di noi e sul paese;

ma sento io per primo la necessità di una parola che, nei limiti del possibile, dica come i fatti si sono svolti, elimini leggende o inesattezze di ogni genere, fornisca qualche elemento di meditato giudizio.

Sarò conciso per quanto la vastità dell’argomento, sia pure ristretto in determinati limiti, potrà consentirmelo.

E sarò anche prudente;

ma su questo punto non vorrei essere frainteso.

Io vi dirò ciò che a mio parere è verità accertata, ben lontano da qualunque malsano opportunismo, anche perché ritengo esser sintomo di forza l’ampio riconoscimento degli errori commessi.

Ma debbo pure tenere presente che, malgrado la miglior volontà, molti, troppi, elementi di giudizio e dati di fatto ci sfuggono tuttora, anche per la difficoltà di raccoglierli mentre l’azione continua a svolgersi a contatto immediato di molte delle nostre unità, e che noi dobbiamo, sì, guardare al passato per riassumere gli avvenimenti e ricercarne le cause come ammaestramento militare e soprattutto morale, ma dobbiamo pure e con tutte le nostre forze occuparci a preparare e soprattutto a non danneggiare l’avvenire.

Noi non possiamo oggi limitarci a guatare l’onda perigliosa, perché non possiamo escludere di aver ancora ragioni di ansia;

noi non siamo usciti del tutto fuor del pelago alla riva.

Abbiamo approdato su una stretta, strettissima lingua di terra, che il valore ammirevole delle nostre truppe ha contribuito ad allargare e sulla quale oggi posiamo il piede saldamente;

ma dobbiamo sempre affrontare la tempesta, con animo e cuore ben fermo.

Io non posso, e nessuno oggi potrebbe, esprimere un giudizio definitivo per il quale, nonostante il diligente studio, mi mancherebbero molti dati positivi e sicuri.

Esporrò obbiettivamente dei fatti, cercherò di indagarne per quanto possibile le probabili cause, esprimerò dei dubbi.

Su questi richiamo la vostra attenzione, perché rappresentano i punti che a mio parere potranno, anzi dovranno, essere oggetto di ulteriore indagine e di accurato esame.

L’origine dei fatti svoltisi negli ultimi giorni di ottobre va ricercata molto lontano, ed anzitutto nelle condizioni della nostra frontiera, che dovevano condurre necessariamente ad uno schieramento difettoso.

Le caratteristiche della frontiera stessa sono:

a) una linea di una estensione enorme, conformata nel modo che tutti conosciamo, quella linea che bisognava subire, a meno di non abbandonare fin dall’inizio della guerra una grandissima parte del territorio nazionale;

b) difficoltà di azione offensiva nel Trentino, per la lunga ed ampia preparazione difensiva dell’avversario;

c) difficoltà di azione offensiva nel Cadore per le condizioni del terreno poco adatto alle operazioni di grandi masse;

d) difficoltà minori verso l’Isonzo, ma gravi anch’esse;

poiché il terreno aspro e difficile, che dalla pianura va man mano salendo, obbliga a conquistarlo palmo a palmo e a prezzo di sangue — perché si ha un fiume alle spalle — perché più indietro incombe sempre sulle operazioni la minaccia strategica di un’offensiva dal Trentino, minaccia che diviene sempre più grave, sia per la difficoltà di farvi fronte, sia per le possibili conseguenze, ad ogni passo avanti delle truppe vittoriose.

Conseguenza di questa situazione (che avrebbe potuto forse consigliare di non diminuire troppo il valore di alcune fortificazioni permanenti di seconda linea) fu uno schieramento eccessivamente esteso per poterlo sostenere efficacemente ovunque;

logorio sensibile di truppe, difficoltà di cambiare spesso quelle in prima linea, difficoltà di fornire complementi, di costituire riserve e di collocarle in posizione di facile manovra.

Difficoltà dico, non assoluta impossibilità.

Oltre alle condizioni del terreno, un altro elemento materiale e morale importantissimo attraeva sempre più l’attenzione e conduceva ad addensare le truppe verso la zona più orientale;

di là passava la strada per Trieste, l’obbiettivo caro al pensiero e al sentimento degli italiani tutti.

E là si ebbe infatti, durante la più gran parte della campagna, il maggiore addensamento di uomini e di mezzi.

La presa di Gorizia accentuò ancora questa situazione, e l’addensamento venne man mano a localizzarsi nel tratto tra la Bainsizza e il mare creando certamente uno squilibrio nella situazione strategica.

Rimaneva una parte immediatamente più a nord in condizioni assai meno buone, non trascurata del tutto certamente, ché anche là si era provveduto a lavori di difesa, ma forse un po’dimenticata in confronto con le altre.

È la zona che ha per centro Caporetto e che era affidata al quarto corpo d’armata.

Zona estesa, molto estesa, anche per un corpo d’armata che alla metà di ottobre aveva 4 divisioni, e nello stesso tempo assai debole sui fianchi.

A nord il Rombon tenuto dal nemico, a sud la testa di ponte di Tolmino che lasciava agli austriaci relativa libertà di manovra sulla riva destra dell’Isonzo.

Di fronte l’enorme barriera che prende il nome dal Monte Nero, barriera che impedisce di vedere al di là, non essendo mai stato possibile, malgrado il generoso sangue sparso copiosamente, di respingere il nemico aggrappato alle rocce del Mrzli e dello Sleme.

Ma, ripeto, dopo un periodo ormai lontano di azioni accanite svoltesi in quel tratto di fronte, la vita vi era divenuta relativamente tranquilla, e il rombo del cannone si faceva sentire molto più lento e raro che in quasi tutti gli altri tratti della linea da noi occupata.

Risulta, e non poteva essere altrimenti, che di questa situazione il nemico ha tenuto conto nel scegliere la zona di attacco.

Così rimasero le cose anche durante l’offensiva che condusse all’occupazione della Bainsizza e del Monte Santo;

così rimasero anche in seguito.

Dopo questa offensiva, il Comando supremo si preoccupò della necessità di procedere ancora più oltre e di occupare sia le posizioni del San Gabriele sia quelle della Selva di Terranova, per togliere da una situazione difficile (e che aveva il carattere di una sosta temporanea) le truppe della Bainsizza, e forse per procedere poi sul fianco sud del Tolmino;

e decise di preparare un’altra azione che avrebbe potuto svolgersi verso la fine di settembre o il principio di ottobre.

È a questa preparazione che si deve essenzialmente l’addensamento avanti di artiglierie e di materiali di ogni genere, che non ripiegarono poi in tempo e che rimasero in gran parte nelle mani del nemico, costituendo sotto vari punti di vista una grande causa di aggravamento del disastro.

I preparativi erano in corso e si svolgevano attivamente quando, nella prima quindicina di settembre, giunse sicura notizia che, in seguito agli avvenimenti di Russia, numerose truppe austriache e germaniche erano state tolte dal fronte russo ed avviate verso quello italiano.

Il Comando supremo, ritenendo che l’offensiva, anche se possibile, sarebbe riuscita molto più difficile ed avrebbe certo cagionato perdite tali da render grave al paese il ripianarle, decise di sospenderla.

Fu un bene:

Fu un male:

Domando, non giudico.

Certo è pericoloso arrestare di colpo tutto quello slancio che deriva dalla preparazione all’offesa;

vi sono leggi fisiche alle quali anche queste masse non si sottraggono.

Si aggiunga l’opinione che le truppe italiane, e quelle di razza latina in genere, siano più adatte per l’azione offensiva che per la difensiva ad oltranza, opinione che aveva forse ragione di essere allora, ma non ne ha oggi dopo che i meravigliosi difensori del Piave e del Monte Grappa hanno luminosamente dimostrato il contrario.

Accenno senz’altro ad un punto delicato, e vi accenno anche per dimostrare che nulla voglio nascondere di ciò che mi è possibile chiarire con dati sicuri.

Si è detto che il comandante della seconda armata dissentisse dal parere del Comando supremo;

è vero, e su questo punto dissente anche oggi, aggiungendo però che era un suo concetto personale e che non oserebbe neppure adesso garantire che i risultati sarebbero stati quali egli sperava.

Ciò che conferma la difficoltà di giudicare in materia come questa in cui tutto dipende dall’esito.

Ha in qualche modo, e in caso affermativo in qual misura, influito questo dissenso, in modo decisivo, sull’andamento delle cose:

Ho motivo di ritenere che, se ciò è accaduto, sia stato in proporzione assai minore di quanto è stato detto.

Certo è, però, che il comandante della seconda armata intendeva, e ciò non era forse in piena armonia coi concetti del Comando supremo, che questa difensiva non avesse carattere passivo ma controffensivo, e voleva, dopo una prima resistenza, piombare sul nemico con truppe raccolte nella conca di Vhr.

È questo un punto che merita di essere chiarito sotto il punto di vista delle conseguenze che ne possono essere derivate.

Qualche giorno prima che l’azione offensiva nemica si sviluppasse, il Comando supremo ne era informato, con sufficiente precisione per quanto riguardava l’entità complessiva delle forze nemiche, e più tardi anche per le probabili direzioni d’attacco.

Si poteva ritenere per certo che una forte azione offensiva si sarebbe avuta da Tolmino ed anche dalla regione di Plezzo.

Si conosceva l’arrivo di numerose artiglierie, ed alcune di queste erano state individuate ed avevano eseguito tiri di inquadramento;

ma ben poco si sapeva circa la posizione della maggior parte di esse, ciò che doveva rendere assai meno efficace il tiro nostro per controbatterle.

Le condizioni del terreno non ci consentivano di vedere, e le giornate piovose e nebbiose avevano reso impossibili o quasi le ricognizioni di aeroplani.

Vista delinearsi sempre più grave ed evidente la minaccia contro il quarto corpo, che per le sue condizioni di estensione di fronte aveva finito per proiettarsi quasi tutto nelle prime linee, gli venivano inviati rinforzi.

Sarebbe bastata una resistenza non lunga perché potessero essere efficaci;

gli avvenimenti precipitarono e queste riserve o arrivarono in ritardo, o erano stanche, o per mancanza di orientamento di capi sulla situazione non furono impiegate a dovere.

Certo fu scarso il loro rendimento.

La Camera, plaudendo ai soldati d’Italia che col senno e col sangue difendono la Patria, afferma la necessità di un severo controllo sulla condotta della guerra, che metta in chiaro tutte le responsabilità sia singole che collettive.

Marazzi

Gortani

La Camera dichiara necessaria ed urgente un’inchiesta parlamentare sulle cause della disfatta di Caporetto.

Canepa

Svolto

La mattina del 24 l’attacco si delineava violento, favorito da una nebbia che tutti senza eccezione dicono fittissima;

tanto fitta che il nemico, pur facendo un violento bombardamento sulle nostre posizioni, aveva quasi rinunziato a far uso (come prima intendeva) di proiettili a gas asfissianti, perché le condizioni meteorologiche ne avrebbero reso assai poco sensibili gli effetti.

Esso si svolgeva travolgente di fronte a Tolmino — dove la 19a divisione attaccata da forze assai superiori finì per cedere abbastanza presto all’irruenza dell’attacco — si delineava da Plezzo, dove la resistenza sembra sia stata assai debole seppure in qualche punto non mancò del tutto.

Il nemico discendeva da nord premendo le nostre truppe sulla sinistra dell’Isonzo;

le sue forze passate a Tolmino risalivano per la destra puntando su Caporetto, avvolgendo così quasi tutto il quarto corpo d’armata.

Sarebbe stato quello il momento per un energico intervento delle riserve;

questo mancò.

Ed allora ebbe principio il disfacimento di quell' unità di guerra, cui seguirono poi altre unità ed altri reparti.

A questo punto è il caso di esaminare quali fossero le condizioni delle truppe di cui si tratta.

Io ricevevo in quei tempi dalla fronte lettere di ufficiali di ogni grado.

Da tutte spirava una grande fiducia;

si attendeva l’attacco, da molti lo si desiderava con la sicurezza di lieto successo.

Forse, oggi che confronto queste notizie con qualche altro dato che mi risulta, specialmente per taluni reparti, mi vien fatto di domandarmi se non si sia confusa un po’la fede con la fiducia.

La fede è un sentimento che un soldato, e un comandante in ispecial modo, non manterranno mai abbastanza alto;

la fiducia deve trovare invece la base in qualche cosa di materiale che dia la più completa sicurezza.

Essa è fatta di controllo assiduo, continuo, su tutto e su tutti;

e non so se questo sia avvenuto sempre, come non so se circostanze particolari (e qui voglio accennare ai numerosi movimenti di quadri e ai frequenti scambi di reparti) non lo abbiano reso in molti casi difficile.

Probabilmente il morale della massa non era così alto come veniva da molti ritenuto;

ciò mi risulta da vari sintomi, qualcuno dei quali aveva colpito anche il comandante dell’armata, impossibilitato dal male ad accertarsi personalmente della sua importanza.

Che il morale delle truppe della seconda armata non fosse tale da rendere eccessivamente fiduciosi, è dimostrato da troppi indizii perché possa ritenersi dubbio.

E ciò per il fatto tangibile del gran numero di prigionieri e per la resa di interi reparti, avvenuta in condizioni tali da non giustificare in modo alcuno la resistenza, scarsamente durata e fiaccamente condotta, l’abbandono senza combattere di posizioni naturalmente e artificialmente forti.

Riconosciuto ciò, resta a determinare quali le cause di tale deficienza nel morale.

Nessuna ricerca è più difficile di questa.

Che una larga propaganda nefasta contro la guerra esistesse nel paese, e che essa avesse diramazioni attive nelle stesse truppe, è un fatto noto e che nessuna parola può abbastanza infamare.

Che le notizie della Russia abbiano contribuito molto largamente al disastro è innegabile.

Ma sarebbe un errore ridurre tutti i fattori del morale delle truppe al solo elemento della diffusione di idee e di propositi di natura politica.

Anche a parità di circostanze si vedono le stesse truppe condursi magnificamente o debolmente;

nella stessa occasione della nostra sciagura, la prima, la quarta, la terza armata ed anche molti reparti della seconda si sono condotti eroicamente e non dobbiamo dimenticarlo.

È un campo, questo, in cui molto si deve ancora indagare.

Ciò che preme per l’avvenire è di opporre propaganda a propaganda, ricercando la forma a ciò più adatta, che a mio parere è quella della propaganda minuta, spicciola, assidua;

di una azione basata su un sentimento di vero appoggio fraterno, sostenuta da forme amichevoli di aiuto materiale.

Quante, quante lacune in tutto questo:

E non è da meravigliare che in questi vuoti si siano insinuati, ed abbiano prosperato anche, dei germi velenosi, di cui abbiamo veduto gli effetti.

Guardiamoci in faccia e diciamolo francamente, ripetendo quello che ieri è stato detto qui, ma che io avevo già pensato e scritto:

nessuno può dire di non aver avuto in questo la sua parte di colpa, o per l’azione esercitata, o per insufficiente reazione, o per semplice omissione.

E quest’ultima è la grande massa:

Come sempre accade in casi simili, la parola tradimento è venuta fuori subito, e come era doveroso si son fatte subito accuratissime indagini che non hanno condotto ad alcun risultato positivo.

Le varie voci corse in proposito sono state tutte controllate e riconosciute senza valido fondamento, ed è d’altra parte assai difficile che prove di fatti di questo genere, qualora siano avvenuti realmente, possano aversi quando si è lasciata la zona in cui essi si sarebbero svolti.

Certo da parte del nemico non sono mancate invocazioni alla pace, incoraggiamenti ad abbandonare armi e posizioni, e non sono state senza influenza.

Non si può ammettere nemmeno il complotto (del quale pure si è parlato) nel senso che si vuole dare a questa parola;

esteso ad un gran numero di persone, non avrebbe potuto essere ignorato.

Ma in qualche caso ad un certo momento, di colpo si sono avute le stesse conseguenze per uno stato d’animo comune a molti e allora non son mancati i reparti intieri (e mi strazia l’animo a dirlo, ma ho promesso di dire la verità) che si sono arresi senza colpo ferire, oppure hanno contemporaneamente gettato a terra le armi.

Tra le cause di debolezza morale è stata addotta da alcuni la debolezza fisica dipendente da deficienza di vitto.

Leggenda anche questa, come i documenti da me finora esaminati mi provano, leggenda di coloro che, vergognandosi della propria debolezza, cercano di scusarla in qualche modo.

Il paese potrà soffrire ed imporsi le più gravi privazioni, ma non ha lasciato mancare il vitto ai suoi soldati.

Ma solleviamoci in alto, molto in alto al disopra di questa morta gora per ammirare ancora una volta gli atti di valore, gli episodi gloriosi che si sono avuti anche in questi oscuri momenti e che brillano perciò anche di più viva e fulgida luce.

E sono non solo episodi di individui, ma di reparti e di intiere unità di guerra, che in questa giornata, come nel doloroso calvario della ritirata, hanno mantenuta alta la fama del soldato italiano.

E qui non posso non ricordare, rimpiangendolo, che una frase, per quanto detta con la migliore intenzione di non attribuire all’esercito intiero la debolezza di alcuni reparti di esso, ha avuto il più deplorevole effetto per il nome d’Italia nel mondo.

Ed è oggi di gran conforto il pensare che quella frase lo stesso soldato italiano l’ha cancellata col suo sangue vivo, nobile, generoso:

Torniamo agli avvenimenti.

Appare ben presto evidente che il torrente che straripa non può essere arginato;

le truppe in ritirata aumentano di numero, travolgendo i reparti in movimento verso la fronte e quelli scaglionati pei servizi di retrovia.

Il Comando supremo ritiene che non vi sia possibilità di manovra controffensiva per parte delle truppe non disgregate ed ordina la ritirata.

È un grave, gravissimo momento, ma oggi, anche col senno di poi, si può dire che un ritardo o un’esitazione avrebbe forse compromesso tutto.

In quel momento fu, a mio parere, molto chiara e giusta la visione della situazione in base alla quale vennero diramati gli ordini:

la terza armata ripieghi, verso il Torre, il Tagliamento ed il Piave, essa rappresenta in gran parte la salvezza dell’esercito, e deve potersi ritirare ordinatamente;

i corpi della seconda armata che erano sulla Bainsizza e a Gorizia proteggano, come un gigantesco paravento, questa ritirata.

La quarta armata e le truppe della zona Carnia ripieghino alla loro volta oltre la conca di Belluno.

Speciali reparti sostengano lungo le pendici delle Prealpi il movimento che si svolge nel piano, evitando pericolosi aggiramenti.

A queste disposizioni corrisponde l’esecuzione;

la terza armata, sebbene premuta, ripiega sostenendo combattimenti di retroguardia, e giunge non senza gravi perdite a salvamento;

la quarta armata compie un movimento difficilissimo e che è uno dei più begli esempi di operazioni militari di montagna.

Altre truppe, tra cui quelle della Carnia, sostengono valorosamente l’urto nemico, talora accerchiate, domate ma non vinte, talora cedendo palmo a palmo il terreno e trattenendo il nemico incalzante.

Della seconda armata, una parte, ottemperando agli ordini ricevuti, resiste gagliardamente malgrado le difficoltà, le perdite, gli sbandamenti.

Il resto aveva perduto ogni traccia di organizzazione.

Era una folla, non indisciplinata, ma soprattutto incosciente, dimentica del passato, noncurante dell’avvenire, che collo sguardo atono moveva per le grandi strade, senza sapere né dove andasse né perché.

Chi ha veduto quelle colonne non le dimenticherà mai:

Invano si cercava in quegli occhi un lampo di vita, invano un sintomo di coscienza, fosse pure di quella del ribelle:

E la ritirata continua.

La linea del Torre, che sembra dapprincipio possa essere mantenuta per qualche tempo, cade di fronte agli aggiramenti dal nord, e questa caduta costa il sacrificio degli eroici reparti della 36a e della 63a divisione, ossequienti sino alla fine dell’ordine di rimanere sul posto, ai quali, a quanto sembra, non giunge in tempo l’ordine successivo di ripiegare.

Il Tagliamento può rappresentare una linea di resistenza solo temporaneamente;

non è certo il fiume che si presti a costituirvi prontamente una linea di difesa ad oltranza per truppe che si ritirano in queste condizioni.

Da principio però le cose volgono a bene;

un rapido accrescersi delle acque sembra favorirci.

Poi si ha una decrescenza ugualmente rapida e le truppe nemiche possono superare l’ostacolo a Pinzano.

Più a valle avviene un fatto gravissimo su cui certo si dovrà meglio indagare:

i ponti della Delizia, per un errore indubbiamente militare e certo imperdonabile, vengono fatti saltare prematuramente.

Le conseguenze sono facili a prevedere.

Le masse incanalate per questa strada, ordinate o disordinate (accresciute dai profughi provenienti da ogni parte), debbono andare a cercare altre vie, con spostamenti di fianco pericolosi e difficili.

Numerose artiglierie, portate con stenti e con sacrifizi inenarrabili fin quasi al ponte, nel momento in cui stavano per giungere al sicuro debbono essere abbandonate con strazio dell’animo degli artiglieri piangenti.

Oltre il Tagliamento, di fronte al diminuito inseguimento, il disordine, sempre grave, diminuisce, e le truppe finalmente si trovano sulla linea del Piave.

Sul Piave occorre resistere;

anzi è impossibile di fare altrimenti.

Continuare una ritirata, già così lunga, in queste condizioni sarebbe l’estremo disastro per l’esercito, sarebbe la perdita della patria.

Inoltre la linea del Piave, relativamente più forte delle altre per abbondanza di acqua, fa sistema a sud colla città che è, per le sue bellezze, per le sue virtù, per il suo ardore patriottico, cara forse più di tutte le altre al cuore di ogni italiano, con Venezia.

A nord la linea si appoggia al Grappa, un monte modesto, in confronto con le alte cime alpine e con le pittoresche vette dolomitiche.

È assai modestamente afforzato;

ma non importa.

I nostri soldati costituiscono lassù una fortificazione vivente, palpitante di amore di patria e di odio per il nemico invasore.

E lo ricacciano più volte.

Questa era la situazione quando ossequente a volontà superiore, conscio pienamente della gravità del peso, ma con quella fede che non mi è mai mancata, neppure nei più gravi momenti, assumevo la carica di ministro.

Tutto sembrava buio ed oscuro;

dalla fede soltanto poteva venire la luce.

E per varie ragioni, tra le quali aveva grande importanza l’istituzione del comitato interalleato, la necessità di cambiamento del comando s’imponeva.

Momento delicatissimo questo, perché, anche indipendentemente dalla difficoltà della scelta degli uomini, il cambio del comando determina sempre e senza dubbio una crisi gravissima, tanto più grave quanto più difficili sono le condizioni delle truppe e più complicata si presenta la situazione.

La soluzione dal Governo adottata la conoscete:

per giudicarla bene e senza preconcetti bisogna rievocare quei giorni, e quei momenti:

Si è accennato ieri alla modificazione della situazione dal 14 novembre ad oggi, ma bisogna riportarsi ai primi giorni di novembre per trovare una situazione assai più grave ancora.

Io non dimenticherò mai le lunghe insonnie, le meditazioni di ogni genere, le riflessioni gravi e penose;

si trattava di salvaguardare quella cosa delicatissima che è la compagine di un esercito in corso di riordinamento, quella cosa anche più delicata che è la compagine di un paese che ha subìto una delle più gravi scosse che la storia registri che ha dimostrato di resistervi in modo meraviglioso, ma che potrebbe anche essere danneggiato irreparabilmente da un atto che più che meditato doveva essere sentito.

Oggi può essere facile giudicare errore quella che allora appariva indiscutibilmente come l’unica soluzione capace di conciliare tutte queste vitali esigenze.

Non dimenticatelo, onorevoli deputati, e lasciateci la soddisfazione altissima di dire che i risultati sono stati quali li voleva il paese.

Le persone scelte per il comando hanno costituito un complesso che corrisponde pienamente alla aspettazione del Governo e dell’Italia.

Le truppe si sono riordinate, hanno sistemato a difesa le posizioni, hanno resistito tanto ai tentativi di sorpresa quanto ai predisposti assalti di forze numerose.

L’esercito italiano ha ritrovato se stesso, le sue virtù degne delle antiche tradizioni.

Nella lettera che l’8 novembre dirigevo al nuovo capo di stato maggiore gli dicevo:

«Occorre far correre nell’esercito un fremito di fede e di volontà, dargli di nuovo quello slancio al quale deve tanta gloria e che un doloroso episodio, per quanto grave, non deve assolutamente offuscare.

Occorre ricercare presto, anche tra gli sbandati della seconda armata, gli uomini di buona volontà che non mancano, scuotere coloro che ripensando al passato recente ne sentono tutto il peso, formarne dei reparti e portarli subito in prima linea come esempio ed incitamento agli altri».

Pochi giorni dopo i miei voti erano esauditi.

Da allora in poi la situazione è venuta gradatamente migliorando.

Essa è certamente grave ancora, ma qualunque cosa si debba fare, avanzare come retrocedere se le circostanze lo esigessero, sarà manovra meditata, ordinata e non ritirata disastrosa:

Ed oggi, dopo che i nostri soldati hanno cosi valorosamente dimostrato di saper resistere da soli anche a forze enormemente soverchianti, è più che mai la benvenuta la nuova e grande forza che ci è data dal giungere in prima linea delle splendide truppe dei nostri alleati, coi quali i soldati d’Italia rievocano i ricordi, sempre vivi nell’animo nostro, della Cernaia e di Magenta.

Finora, passando in rivista gli avvenimenti ho accennato ad alcune delle possibili o probabili cause di essi;

ma conformandomi a quanto diceva ieri il presidente del Consiglio non ho parlato di responsabilità.

Il vagliare queste con sicurezza per giungere a conclusioni concrete, pratiche, che soddisfino la grande maggioranza del paese e corrispondano a quell' alto senso di giustizia che deve essere con ogni cura tutelato, non è facile in certi casi, quando cioè le origini dei fatti vanno ricercate in un campo molto ampio e lontano.

Ma non importa;

si supererà questa, come tutte le altre difficoltà materiali cui pure si accennava ieri e che si riassumono essenzialmente nella difficoltà di scelta delle persone adatte e nella difficoltà di avere per ora i documenti e le testimonianze più importanti, che bisognerebbe ricercare nei campi di concentramento nemici.

Non importa ripeto;

il Governo riconosce pienamente la necessità di un’accurata indagine che dia più minutamente e più sicuramente ragione di tanti fatti finora inesplicabili, che consenta di veder bene se vi siano state, per parte di chi era responsabile, trascuranze, debolezze, errori, tutte cose che in tempo di guerra possono essere colpe.

Questa indagine è voluta dal paese e dall’esercito, e ritengo debba essere desiderata anche da tutti coloro, che avevano in quei momenti la direzione e il comando delle operazioni.

Il Comando supremo, che è in questo, come in tutto il resto, pienamente d’accordo col ministro, ha subito iniziato quest’opera, affidandola in parte anche all’autorità giudiziaria, ed ha raccolto numerosi ed ampi documenti che lavora a completare e a coordinare.

Questo lavoro, non facile, non breve, sarà continuato fino all’estremo limite possibile, in modo da fornire a chi dovrà giudicare (e di questo parleremo a suo tempo) la maggior quantità possibile di elementi sicuri.

Le responsabilità che risulteranno dimostrati daranno certamente luogo, per parte di chiunque si trovi a questo posto, a provvedimenti pronti ed energici.

Non sarei completamente franco e sincero, se non aggiungessi qualche cosa ancora.

Sebbene la massa degli sbandati sia in gran parte riordinata, e per un’altra gran parte vada riordinandosi, non tutti hanno ancora risposto come vorrei all’appello fatto ai loro sentimenti, ed alcuni campi di concentramento hanno dato luogo a lamenti per indisciplina o peggio.

Contro questi si agisce con la massima energia, in pieno accordo col Comando supremo.

Qualunque debolezza in questo campo sarebbe tradimento, e debolezza non vi sarà.

Ma ho bisogno di essere aiutato anche fuori delle sfere di azione strettamente militari, perché vedo varie forme di propaganda, alcune delle quali di stile perfettamente tedesco e che ho sentito anche ieri accennar qui, che non possono non preoccupare.

Contro di esse il Governo deve lottare e lotterà, ma non può certo bastare da solo, quando non gli presti il suo concorso la massa dei cittadini stessi.

Ne accenno alcune:

gli annunzi di false vittorie, che poi, una volta smentite, deprimono gli animi che prima avevano contribuito ad esaltare;

la larga distribuzione di perfidi e falsi ordini del giorno attribuiti al generale Cadorna;

la propaganda antipatriottica in tutte le sue forme;

ed infine le due grandi questioni degli imboscati e del vitto del soldato.

Su queste ultime avrò certo occasione di parlare più a lungo durante la discussione.

Dico fin d’ora però che la guerra all’imboscamento da me iniziata fin dal giorno in cui ho assunto la carica di ministro, mi troverà sempre in prima linea.

Il male è grave, è difficile sradicarlo dalle radici, ma contro di esso si deve lottare con tutta l’energia.

Non bisogna però neppure dimenticare che questa è una della armi di propaganda adoperata più largamente, ed in mala fede, verso le famiglie più povere e più colpite dalla guerra, alle quali la cosa viene presentata in modo da impressionarne il sentimento di giustizia e da sfruttarne i più nobili affetti.

Quanto al vitto del soldato, esso è sufficiente al bisogno e commisurato necessariamente anche alle condizioni del paese.

Ragioni evidenti, per evitare confronti che stridono troppo, consigliano di far qualche cosa per aumentarlo, e vi si è già provvisto;

ma bisogna che assolutamente non si accrediti nelle famiglie la voce che troppo spesso, e non ingenuamente, si fa correre, dei figliuoli che muoiono di fame.

Onorevoli deputati, vi ho parlato francamente, sinceramente, e, come avevo promesso, con quella giusta ampiezza che mi era consentita dalle circostanze.

Ma un’altra volta voglio e debbo ripetervi:

preoccupiamoci, come è nostro dovere, del passato, doloroso e triste, ma sempre con lo sguardo fisso all’avvenire.

Il mio programma per l’avvenire si riassume in due parole: fede, energia.

Fede nel nostro paese, forte nelle avversità e nella sventura, fede nell’esercito che così gloriosamente ha risposto alle nostre parole di incitamento.

Energia a fondo, a tutta prova, per reprimere gli abusi di qualsiasi genere ed in qualunque campo, e per impedire che elementi estranei, in buona o in mala fede, attenuino le virtù e la forza di resistenza del soldato e del paese.

RUINI.

Rivolge al Governo i seguenti quesiti:

1) Se sono esatte le pubblicazioni testé avvenute di atti diplomatici dell’Intesa, e se si crede opportuno completarle d’accordo con gli alleati per evitare deformazioni ed impressioni non precise.

2) Perché fu ritardata la dichiarazione di guerra alla Germania e se erano stati assunti impegni al riguardo.

3) Perché fu ritardata la partecipazione alla spedizione di Salonicco.

4) Perché si favorì nei Balcani Re Costantino, strumento di Guglielmo Imperatore.

5) Se si ignorò la convenzione stipulata nella primavera del 1916 fra gli alleati per la Turchia asiatica.

6) Perché non si impegnò a tempo la costituzione di organi interalleati.

7) Perché non si sostennero nel gennaio 1917 proposte di concorso e di azione comune sul nostro fronte.

Domanda inoltre:

Quali obbiettivi si proposero i piani di guerra.

Se il Governo prese parte alla loro preparazione e come regolò i suoi rapporti col Comando supremo.

Se pervennero ed in qual conto furono tenuti gli avvertimenti sulla situazione militare e sui suoi pericoli.

Quando si ebbe notizia della minaccia nemica e se esistevano convenzioni perché non mancasse l’aiuto alleato.

Come si intendano accertare le responsabilità.

Con quali criteri venne stipulata la convenzione Bollati con la Germania e come è regolato il regime giuridico per i sudditi germanici, sia per l’internamento come per le azioni giudiziarie e sequestro dei beni.

Come è ordinata e come s’intende provvedere alla deficienza della polizia di guerra.

Se s’intende provvedere alla mobilitazione civile.

Se e perché non vennero, durante la neutralità e durante i primi anni di guerra, fatti acquisti di navi, cereali e materie prime ed operazioni finanziarie.

Perché nulla di adeguato si tentò per disciplinare i cambi, e che cosa si è ottenuto per il nostro fabisogno ai fini della resistenza vittoriosa.

Quali sono le convenzioni per sostituire efficacemente la mancata efficienza russa per raggiungere la vittoria.

Quali danni continua a produrre il sottomarino, quali le possibili difese.

Se si pensa a costituire subito nel seno dell’Intesa, mediante accordi economici ed istituti internazionali, una società delle nazioni che fronteggi saldamente il nemico e contribuisca a costringerlo a durevole pace.

Domanda infine perché si consentì l’esodo di un miliardo per l’acquisto di titoli nemici al principio della guerra.

Termina col raccomandare che si stringano i vincoli tra le nazioni dell’Intesa.

PIETRAVALLE.

Per una mozione d’ordine sostiene che occorre discutere solo della situazione militare e di politica estera.

MODIGLIANI.

È di eguale parere e ricorda le dichiarazioni fatte ieri dal presidente del Consiglio.

MEDICI DEL VASCELLO.

Domanda quali sono gli accordi circa la Palestina e la Siria.

Quale la formula per entrare in trattative con gli Imperi centrali, concordata con gli alleati, e quale l’adesione ad essa degli Stati Uniti: e in particolare sull’Alsazia e Lorena.

Se vi è l’adesione degli Stati Uniti al ristabilimento del Regno di Polonia.

Quale portata ha la pregiudiziale di non entrare in trattative con la Germania, se non vi è mutata la Costituzione e la casa regnante.

CELESIA.

Rileva rapporti fra i siluramenti lungo le nostre coste e lo spionaggio all’interno da parte di austro-tedeschi coperti di altra nazionalità.

Denuncia la propaganda di disfattisti che ancora si fa in alcuni consigli di leva sotto forma di promesse e di esoneri o riforme.

COTUGNO.

Ricordando di essere egli l’autore dell’ordine del giorno per limitare la discussione a semplici interrogazioni, fa le seguenti:

Vi è una partecipazione del Giappone alla guerra:

Si potrà resistere sulle posizioni attuali:

Come sono stati mantenuti i patti fra alleati:

Perché furono demolite le fortezze:

Perché non erano guernite le seconde linee:

Perché si fecero saltare i ponti anzitempo:

Perché perdemmo tremila cannoni:

Come vi si ripara e quale è l’aiuto degli alleati:

Come si vuol provvedere a reprime lo spionaggio:

PRESIDENTE.

L’onorevole Raimondo iscritto a parlare è assente e perde il suo turno.

FERRI GIACOMO.

Chiede al ministro degli Esteri, onorevole Sonnino, la rettifica dei documenti alterati, se tali, pubblicati a Pietrogrado.

Allude specialmente ad un trattato, da cui risulterebbe che il 26 aprile 1915 avevamo assunto impegno di entrare in guerra entro un mese, benché fino al 4 maggio rimanessimo gli alleati degli Imperi centrali;

che ci eravamo impegnati a far guerra a tutti i nemici degli alleati, mentre solo dopo un anno e mezzo dichiarammo la guerra alla Germania.

Domanda se siamo malvisti dagli alleati per slealtà della diplomazia o per mancata propaganda fra i popoli sulla nostra alleanza.

Non sa spiegarsi come il generale Cadorna sia stato mandato a rappresentare il nostro paese in seno al Consiglio supremo militare degli alleati, mentre logicamente, stando alle deficienze ammesse e rivelate nel suo discorso dal ministro della Guerra, generale Alfieri, avrebbe dovuto essere messo per lo meno sotto stato di accusa.

Dice che non può contentarsi che il generale Cadorna resti a quel posto, quando egli è responsabile di quel telegramma che diffama il nostro esercito in faccia al mondo, dopo averlo disorganizzato.

Il siluramento di 240 generali e di 400 colonnelli, e coi motivi che si sanno, ha portato la demoralizzazione nell’esercito.

Egli doveva andare al fronte per farsi ammazzare e non a Parigi.

Ringrazia l’onorevole Fradeletto, di avere impedito che a tale uomo il 4 ottobre si donasse la spada gloriosa di Garibaldi.

GRABAU.

Si riferisce alle comunicazioni del ministro della Guerra e vorrebbe conoscere perché non si sono usati tutti i mezzi e le forze disponibili contro il nemico.

Per quanto riguarda la propaganda disfattista, alla quale ha accennato lo stesso ministro, vuole delle assicurazioni perché non si lascino agli archivi le denuncie contro costoro, firmate anche da persone rispettabili.

Ed in ordine agli imboscati aspetta di vedere, che il ministro mantenga le sue promesse, pur rendendo chiara la situazione di coloro che anche nelle fabbriche compiono un dovere patriottico, approntando le armi ai combattenti.

Ritiene che anche gli ufficiali effettivi abbiano pagato il loro contributo alla patria largamente, specialmente in principio della guerra;

ed è necessario sfatare la leggenda del loro imboscamento, che serve anche alla propaganda di quelli che son contrari alla guerra.

Parla della circolare n. 8.

Deplora l’assenza quasi assoluta dei comandi sulla fronte trentina, che mal si ritiene da noi come insormontabile, e sulla quale si ebbe il grave danno dello scorso anno.

Critica la insufficiente difesa della linea di Caporetto, mancante di seconde linee e di quanto altro poteva servire a riparare l’iniziale disastro.

Ricorda gli inconvenienti, già accennati dallo stesso ministro della Guerra, delle intempestive rotture dei ponti e di tanti altri disguidi dolorosi avvenuti nella ritirata e che resero più gravi le conseguenze del disastro.

In tutto questo ci sono delle responsabilità, che bisogna accertare e punire;

come ci sono delle responsabilità non meno gravi nell’avere incoscientemente ammassati tanti materiali, impianti stabili e provviste di ogni genere nelle linee troppo vicine al nemico.

Deplora l’assolutismo del Comando supremo che non teneva mai consigli di guerra, che non ammetteva alcuna discussione sui suoi ordini e che pertanto cambiava inopinatamente i varii comandanti di ogni grado, sol perché si permettevano fare osservazioni o sollevare dubbi sulla esecutorietà degli ordini del Comando supremo.

Deplora la mancanza dell’unità di comando dell’Intesa, che occorre intensificare, tenendo conto, per tutte le azioni avvenire, di quanto è venuto a mancare per l’abbandono della Russia, che potrà, ma non subito, essere surrogato dall’intervento, ma non a spizzico, delle forze americane.

Crede che dopo la disfatta non si sarebbe mai dovuto nominare il generale Cadorna ad un posto così importante nel Consiglio militare interalleato.

Ne ritiene in tutti i modi necessaria la completa eliminazione, come di lui così pure del generale Porro.

GASPAROTTO.

Sì, sì.

È necessario che vada via anche lui, perché l’esercito non lo vuole.

GRABAU.

Così facendo si potrà sperare di raggiungere lo scopo supremo, al quale tutti tendiamo.

(Approvazioni).

(Si riprende la discussione sui limiti da assegnare al presente dibattito e parlano in vario senso gli onorevoli Orlando Vittorio Emanuele, presidente del Consiglio, Pietravalle, Marazzi, Modigliani e Alessio;

ma si resta fermi nel criterio approvato dalla Camera nella seduta pubblica di ieri).

Il seguito della discussione è rinviato a domani.

La seduta è tolta alle ore 18,50.

IL PRESIDENTE MARCORA

IL SEGRETARIO GUGLIELMI