Voci della Grande Guerra

Diario 1914-1916 Frase: #188

Torna alla pagina di ricerca

AutoreSonnino, Sidney
Professione AutorePolitico
EditoreLaterza
LuogoBari
Data1972
Genere TestualeDiario
BibliotecaBiblioteca di Area Umanistica dell'Università di Siena
N Pagine TotXII, 374
N Pagine Pref12
N Pagine Txt374
Parti Gold59-82
Digitalizzato OrigNo
Rilevanza3/3
CopyrightNo

Contenuto

Espandi

1915 3 gennaio.

Naby Bey.

Mi ha letto un dispaccio del suo governo in cui si ripete di voler dare le soddisfazioni chieste per Hodeida, compresa la visita in cui il mutessarif, facendo visita al console italiano, esprimesse il suo rincrescimento per l’accaduto;

con la sola eccezione del saluto alla bandiera italiana.

Il ministro sosteneva che la bandiera non era stata in alcun modo offesa.

Risposi che mi rincresceva che così si mostrassse di non voler mettere una pietra sull’increscioso episodio, ma che io dovevo assolutamente insistere, dopo le offese recate al consolato e alla persona del console, sulla domanda del saluto militare alla bandiera italiana.

In occasione della visita del mutessarif al console, si sarebbe issata la bandiera italiana, ed era questo il momento per un pubblico saluto, che ne restaurasse localmente il prestigio.

Naby Bey mi assicurò che si sarebbe adoperato in questo senso presso il suo governo, e sperava di poter riuscire.

6 gennaio.

Barone Macchio disse aver rilevato una maggiore disposizione guerresca nell’opinione italiana da quando era partito per Vienna nel dicembre.

Risposi che non mi pareva che ciò fosse esatto;

che nei due ultimi mesi l’opinione si era calmata accettando la neutralità secondo il programma del governo.

Che però conveniva francamente riconoscere che la stessa opinione più neutralista partiva dal presupposto che con la neutralità si sarebbero potute appagare alcune aspirazioni nazionali;

e che appunto in questo sottinteso stava tutta la difficoltà della situazione.

Ciò mi riconduceva alla questione dei compensi secondo l’art. 7 del trattato della Triplice, cioè all’oggetto del passo che avevo mosso quindici giorni fa a Vienna.

Il ministro Berchtold aveva ora ammesso la possibilità di invocare l’art. 7 del trattato della Triplice per parte dell’Italia nelle presenti contingenze, e la convenienza di impegnare una discussione sugli eventuali compensi da concedersi all’Italia di fronte ad un’azione dell’Impero austro-ungarico tendente a modificare l’equilibrio nei Balcani.

Il ritiro delle truppe imperiali dalla Serbia sembrava forse rendere meno opportuna una tale discussione, togliendole ogni carattere di urgenza se non di attualità;

né io volevo col troppo sollecitarla aver l’aria di chercher querelle all’Austria-Ungheria.

La base diplomatica per l’invocazione dell’art. 7 riesce più debole fintantoché l’Austria-Ungheria non mostri di voler ritentare l’impresa contro la Serbia.

D’altra parte però restano di eguale forza le ragioni logiche e politiche per trattare della questione dei compensi;

oltreché da un momento all’altro può ripresentarsi, e molto probabilmente si ripresenterà, la condizione di fatto di un attacco del territorio serbo o di altro punto dei Balcani per parte degli eserciti imperiali.

La ragione logica fondamentale che giustifica e reclama la discussione da me invocata parte dal fatto che tutta intera la guerra è stata dall’Impero intentata fin dal primo giorno con finalità e direzione assolutamente opposte agl' interessi più chiari e palesi della politica italiana nella penisola balcanica.

La ragione politica si ravvisa nella necessità di creare una buona volta tra l’Austria-Ungheria e l’Italia, ove si voglia provvedere all’avvenire e a rendere utile e feconda una alleanza tra i due Stati, una situazione atta ad eliminare i continui attriti e i malintesi tra i due popoli sostituendovi relazioni di simpatia e di cordialità tali da rendere possibile una cooperazione normale verso scopi comuni di politica generale.

Ogni alleanza che non venga alimentata dall’amicizia e che non contribuisca per suo conto ad alimentare l’amicizia non può riuscire che sterile e vana.

Per arrivare ad una siffatta situazione bisogna avere l’ardire e insieme la calma di affrontare serenamente, in occasione della discussione sui compensi di cui all’art. 7 del trattato della Triplice, la delicata questione riflettente la possibile cessione di territori già oggi appartenenti all’Impero austro-ungarico.

È disposto il governo imperiale a trattare la questione anche se portata su questo terreno:

Non potersi da noi come neutrali accettare la discussione sulla base di compensi eventuali riflettenti territori posseduti da altri belligeranti, perché ciò equivarrebbe al prendere parte fin da ora nella contesa.

Macchio ammetteva l’opportunità di discutere liberamente di tutto, senza fare questioni di suscettibilità e di amor proprio.

Accennò alla possibilità di compensi in relazione con l’Albania, paese così vicino all’Italia e facilmente accessibile.

Risposi che in Albania io non vedevo per l’Italia che un solo interesse vero quello negativo, consistente nell’impedire che ci andasse qualche altra potenza;

che pel resto essa non aveva nessuna attrattiva per noi.

Macchio osservò che ogni impegno reciproco doveva essere fondato sul principio del do ut des;

onde anche l’Italia avrebbe dovuto determinare la sua parte di contributo, oppure doveva fissarsi la parte di vantaggio che a guerra finita avrebbe potuto ritrarre l’Austria-Ungheria, ed a questa parte commisurare i vantaggi dell’Italia.

L’Austria non mirare a incrementi territoriali a carico della Serbia.

Risposi che i vantaggi potevano essere non soltanto territoriali;

e che si potevano assicurare molti vantaggi di influenza e di preponderanza politica economica e morale, che tutti venivano in genere contemplati dall’art. 7.

E il do ut des ci sarebbe anche se, entro limiti predeterminati, uno dei contraenti lasciasse all’altro mano libera nella sua azione, contro concessioni precise e fisse.

All’osservazione spesso ripetuta da Macchio che ogni patto doveva essere fatto dipendere dai risultati eventuali della guerra, rispondo che se volevamo guidare l’opinione pubblica italiana piegandola in senso favorevole agli accordi, bisognava poterle far presentire fin dall’inizio un minimo di vantaggi tangibili e certi e non dipendenti soltanto da eventualità incerte e remote.

Altrimenti ogni impegno sarebbe rimasto senza alcun effetto pratico.

Il ministero può sempre cadere per un movimento subitaneo dell’opinione, e non si sarebbe ottenuto nessun risultato durevole e certo.

Macchio avendo accennato alla difficoltà estrema di trattare di simili temi, non solo per le questioni di amorproprio e di suscettibilità da me accennate, ma anche al punto di vista dei precedenti che si costituirebbero in un Impero costituito come quello austro-ungarico, risposi che il distacco dei pochi italiani rimasti sudditi austriaci non poteva costituire un precedente pericoloso per l’Impero, perché oramai, dopo il 1859 e il 1866, l’elemento italiano era così esiguo per numero da non potersi difendere di fronte alle altre nazionalità consociate, e da non poter mai aspirare ad alcuno svolgimento nell’ambito dell’Impero come potevano sperare altre nazionalità.

Citai l’esempio di Trieste.

Non gli restava che di sparire soffocato dalle altre nazionalità slave o tedesche che lo premevano, oppure di staccarsi dall’Impero.

Per la situazione generale e internazionale poteva essere più consigliabile per lo stesso Impero di eseguire l’amputazione chirurgica.

Un simile fenomeno non si verificava che pel solo elemento italiano;

onde un distacco concordato all’amichevole non poteva costituire alcun precedente temibile per la stabilità del resto dell’Impero.

Restammo d’intesa che si sarebbe discusso amichevolmente di tutte queste questioni, precisando da una parte e dall’altra le idee e le proposte; e dibattendo la cosa così a Vienna come a Roma.

8 gennaio.

Hohenlohe prospettava al console Lebrecht la possibilità della cessione pacifica del Trentino, e di una rettifica di confine, cedendo Monfalcone e Gradisca (all’incirca la linea dell’Isonzo).

Egli negava l’italianità di Gorizia.

9 gennaio.

Fin dalla sua prima costituzione il presente ministero ha preso apertamente per base del suo programma la neutralità in quanto questa possa conciliarsi con l’appagamento delle aspirazioni nazionali.

Ai primi di dicembre faceva sentire a Vienna come i movimenti degli eserciti austriaci nei Balcani e segnatamente in Serbia creassero una situazione che dava luogo all’invocazione dell’art. 7 del trattato di Triplice alleanza e alla necessità di una preventiva intesa riguardo ai compensi da concedersi all’Italia.

Il governo imperiale prima negò poi ammise la opportunità di una tale discussione in applicazione dell’art. 7.

E il 6 gennaio (colloquio con Macchio) precisai come la discussione per essere utile avrebbe dovuto impiantarsi sulla base della precisa e sicura cessione all’Italia di alcuni territori, di lingua italiana, attualmente posseduti dall’Austria-Ungheria, contro la concessione all’Austria-Ungheria, entro limiti da determinarsi, della libertà d’azione.

L’impossibilità in cui si trova a tutt’oggi il governo di dare alcun affidamento serio all’opinione pubblica intorno alla sicura soddisfazione delle aspirazioni nazionali da potersi raggiungere col mantenimento della più stretta neutralità, ha dato e va dando, ogni giorno di più, largo alimento e spinta agli elementi che spingono alla guerra.

Se si aspetta ancora molto non vi sarà più forza politica che possa arginare la corrente guerresca, e all’attuale ministero non resterà altra via che il ritirarsi consegnando il timone dello Stato in mano agli elementi nazionalisti e radicali.

Conviene dunque sollecitare una risoluzione definitiva dei negoziati ora in corso relativi all’applicazione dell’art. 7 del trattato della Triplice, ove si voglia che un’eventuale intesa porti a risultati positivi ed efficaci.

10 gennaio.

Console Lebrecht:

quale divisione amministrativa Trieste, Istria, Gorizia, ecc.

Ragioni:

istituzioni all’interno;

all’estero, situazione stabile.

Ora senza Istria non avremmo raggiunto questi obiettivi.

Tanto più che i neutralisti professi (Giolitti) vanno assicurando che tutto si può ottenere, quasi che l’avessero già in mano.

Camera torna 18 febbraio e vorremmo poterle far sentire qualcosa.

Altrimenti situazione del governo diventa impossibile.

Se il paese non capisce accordo e nella sua grande maggioranza non lo approva, ogni patto che si prendesse resterebbe inefficace o nullo.

Sarebbe allora meglio lasciar le cose nel vago, malgrado i pericoli che ne possono derivare.

Berchtold dice di soldati, ma è un pretesto.

Principe di Bülow.

Gli racconto del mio colloquio ultimo col barone Macchio.

Egli dice che Macchio gli accennò della conversazione avuta, e che lui, Bülow, gli aveva ripetute tutte le ragioni che consigliavano di cedere in qualcosa all’Italia.

Conveniva considerare le questioni da un punto di vista realista;

e in Italia oggi le stesse istituzioni monarchiche avrebbero potuto correre qualche rischio, se da questa guerra il paese non usciva con qualche vantaggio.

Macchio aveva accennato all’Albania come possibile compenso all’Italia;

ma su questo punto lui, Bülow, avrebbe espresso l’opinione assolutamente negativa:

il che concordava con quanto avevo detto io.

Macchio non aveva accennato a Bülow della mia risposta a questo riguardo.

Bülow ripeteva a noi il consiglio di procedere con tatto, e soprattutto di non voler «stravincere» e di non chiedere troppo.

Risposi che dovevamo partirci nelle nostre richieste dalle due ragioni fondamentali da cui partiva in realtà tutto il dibattito, astrazione fatta dalla pura base giuridica dei compensi in forza dell’articolo 7 del trattato della Triplice.

Quand’anche non esistesse quell’articolo 7, conveniva tener presenti quelle due ragioni e cioè:

1. - riguardo all’interno, che dovevamo trovare nel consenso dell’opinione e del sentimento pubblico una base sufficiente per poter combattere ogni nemico delle istituzioni e per dare solidità e forza agli impegni che prendevamo;

onde non potevamo non tener conto delle questioni di nazionalismo italiano dei vari territori ora soggetti all’Austria;

e, 2. — riguardo all’esterno, che non dovevamo lasciare dopo la guerra una situazione di cose tra l’Austria e l’Italia tale da perpetuare gli attriti e i dissensi; ma invece da rendere possibile una intesa cordiale ed una eventuale azione in comune.

Queste due ragioni rendevano singolarmente difficile ogni rinunzia a regioni di lingua italiana, come l’Istria.

Bülow non rilevò queste mie osservazioni.

Disse che aveva lavorato molto per persuadere Berlino, cioè l’imperatore e Bethmann Hollweg e Jagow, della necessità di condurre il governo austriaco a far qualcosa; e che riteneva (questo in tutta confidenza) che si sarebbe mandato a bella posta qualcuno a Vienna, sotto altri pretesti, per meglio poter influire.

11 gennaio.

Mattina.

Principe di Bülow.

Mi narrava in modo riservatissimo che:

La Germania manda a Vienna il principe di Wedel, che fu ambasciatore a Roma e poi per vari anni a Vienna, e ciò per indurre il governo austriaco a cedere il Trentino all’Italia.

Sono, diceva Bülow, di due ordini le difficoltà maggiori che si prevedono e a cui converrebbe trovare una via d’uscita:

1° - di carattere militare:

l’elemento militare farà difficoltà al rilascio, durante la guerra, di tutti i militari provenienti dalla regione di cui si tratterebbe la cessione.

Dice che i trentini nell’esercito imperiale si battono bene.

Non sarebbe possibile aspettare pel rinvio dei soldati a quando sarà fatta la pace:

2° - di carattere dinastico.

Non si vorrebbe urtare nella suscettibilità dell’imperatore che porta tra i suoi titoli quello di conte del Tirolo.

Si vedrebbe una qualche via formale d’uscita nel fare una cessione del territorio dell’antico Vescovado di Trento, che formava parte dell’Impero germanico romano e che fu aggregato al Tirolo in epoca relativamente recente.

Ma i confini del Vescovado quali erano precisamente:

Il principe di Bülow me lo chiedeva.

Risposi che quanto alla questione militare non vedevo la possibilità di rinviare il rilascio dei militari di province che fossero cedute; che, data la cessione, ogni trattenuta sotto le armi dei soldati di leva farebbe un effetto deplorevole sull’opinione pubblica italiana.

Come prima idea mi pareva che si potrebbe lasciare liberi individualmente i militari in questione di restare o no sotto le armi, o passare subito sotto il nuovo regime; ma che avrei potuto pensarci meglio; che ne avrei riferito riservatamente al presidente del Consiglio.

Quanto alla questione del Vescovado di Trento non potevo oggi dire nulla; e che avrei cercato di informarmi.

Nella formazione del primo Regno italico napoleonico era stato distaccato il Trentino dal Tirolo, arrivando fino a Bolzano.

Bülow osservò che a Bolzano la popolazione era tedesca, almeno nella grande maggioranza, e che la vallata di Merano era interamente tedesca.

Egli mi raccomandava di fare qualche ricerca sui confini dell’antico Principato ecclesiastico di Trento; che egli pure avrebbe cercato di informarsi; e che conveniva far di tutto per facilitare il compito di Wedel.

Bülow parla come se dovesse essere cosa intesa che se l’Austria ci offre il Trentino, contro l’impegno nostro della neutralità assoluta, noi non esigeremo altro.

Pomeriggio.

Barone Macchio.

Parlando dell’art. 7 e degli eventuali compensi, torna a parlare dell’Albania, dicendo di non capire perché ora l’Italia non vi annetta più quell’importanza che dimostrava di annettervi negli anni scorsi.

Risposi ripetendo che il nostro interesse nell’Albania era, più che altro, negativo, cioè che nessun’altra potenza l’occupasse; e che non avevamo alcun desiderio di esser presi forzatamente nell’ingranaggio delle questioni interne balcaniche, e di trovarci inevitabilmente e durevolmente in contrasto con la Serbia, o la Bulgaria.

Che del resto anche l’Austria mostrava ora di annetterci meno interesse.

Che portavamo la questione dei compensi sopra le province che erano prese di mira dal sentimento popolare nazionalista, per poter appunto trarne la forza necessaria politica per prendere e mantenere eventuali impegni diplomatici.

Macchio insisteva, non sapendo rassegnarsi a questo mettere fuori discussione l’Albania come materia di compenso.

Egli osservava che l’art. 7 contemplava questioni balcaniche e non altre.

Risposi che contemplava modificazioni nei Balcani come il motivo di trattare di compensi, ma ciò non implicava affatto che i compensi stessi dovessero riguardare esclusivamente i Balcani.

Macchio si mostrava turbato e di cattivo umore.

Parlò dei nostri armamenti, e del nostro concentrare truppe specialmente nelle province più vicine al confine austriaco.

Accennò con tuono di ironia alla benevola neutralità che si doveva mantenere, quando uno degli alleati riteneva non dover prendere parte alle ostilità insieme con gli altri.

Evitai di rispondere direttamente su questi tasti.

Dissi che aspettavo notizie da Vienna di quando Avarna avesse conferito con Berchtold.

Restammo che Macchio sarebbe tornato verso la fine della settimana.

Far capire a Germania che troppo ritardo guasta.

Libri della Sibilla.

Tutto è decidersi a tempo.

Camera si aduna a metà febbraio:

bisogna poter preparare opinione pubblica;

ma per questo occorre aver qualcosa di positivo, altrimenti fantasia corre e poi la delusione inasprisce gli animi.

14 gennaio.

Il principe di Bülow mi narrava che invece del principe Rupprecht di Baviera, di cui egli aveva annunziata ieri a Salandra la missione a Vienna, per persuadere l’imperatore suo nonno della necessità di fare qualche cessione di territorio all’Italia, si era deciso di mandare, a sostegno del principe di Wedel, il conte di Podewils, stato esso pure ministro di Baviera così a Roma come a Vienna.

Mi chiedeva se ritenessi che il ritiro di Berchtold e la sostituzione di Burián avessero relazione con la questione del Trentino.

Dissi che non ne sapevo nulla delle vere ragioni del ritiro di Berchtold, ma che era naturale il pensare che, qualunque fossero in realtà, il Berchtold andandosene avrebbe motivato il ritiro stesso presso l’imperatore con la propria riluttanza al trattare la questione di eventuali cessioni territoriali all’Italia;

onde ne arguivo che l’imperatore oramai fosse al corrente delle trattative pel Trentino e non fosse a priori avverso ad ogni discussione, perché altrimenti avrebbe risposto a Berchtold che per tale questione doveva appunto restare e non andarsene, affine di meglio resistere.

Bülow ammetteva che ciò dovesse essere, ma ne traeva argomento per ritenere che col successore Burián l’imperatore fin da principio, pur dichiarando di poter accettare la discussione sulla questione dei compensi territoriali in forza dell’art. 7, e magari sulla cessione del Trentino, deve aver insistito sulla necessità di non mai oltrepassare questi limiti nelle trattative.

Bülow mi chiedeva se non si poteva eventualmente, quando si arrivasse a un accordo sul Trentino, non annunziare la cosa al pubblico e nemmeno alla Camera, dicendo soltanto il governo a questa che aveva tanto in mano da ritenere che si sarebbero soddisfatte le maggiori aspirazioni nazionali.

Dissi che ciò era assolutamente impossibile; che le fantasie popolari si sarebbero subito montate, dimodoché poi nel giorno in cui si fosse saputo di che cosa si trattava, ci sarebbe stata una universale disillusione e una conseguente reazione.

Meglio sarebbe stato perfino non farne niente; e non annunziare niente come concluso.

Quanto alla forma di cessione per quel che riguardava il Trentino, poteva benissimo l’imperatore, anche dopo la cessione, serbare il suo titolo di conte del Tirolo, perché il Trentino fu riunito amministrativamente alla Contea del Tirolo soltanto nel 1802.

Bastava che facendo la cessione si determinassero con precisione i confini, perché nei secoli il Principato ecclesiastico di Trento aveva avuto confini assai vari.

Aggiunsi che non ritenevo che il sentimento popolare dovesse contentarsi del solo Trentino.

Che una condizione stabile di concordia tra Austria e Italia non si sarebbe avuta che quando potesse eliminarsi completamente la formula irredentistica di «Trento e Trieste».

Bülow si raccomandava che non allargassimo le domande; perché certamente l’Austria avrebbe preferito la guerra alla cessione di Trieste.

E mi dimostrava tutta l’importanza che si annette in Austria al possesso di quel porto.

Egli riteneva di poter riuscire pel Trentino, ma non più oltre.

Ripeteva che era di somma importanza per la Germania come per l’Italia che l’accordo si facesse e si evitasse una guerra.

Mi chiese se avevo riparlato con Macchio.

Risposi che avevo riveduto Macchio e che lo avevo trovato di cattivo umore, insistendo egli sull’Albania come materia di compenso e cose simili.

Che del resto ci saremmo riveduti dopo che Avarna avesse parlato a Vienna con Burián.

16 gennaio.

Principe di Bülow.

Torna ad insistere sulla necessità di facilitare al nuovo ministro Burián il principio dei negoziati tra Austria e Italia;

onde riteneva essenziale convenire di non pubblicare il risultato eventuale dei negoziati stessi che a guerra finita.

Si annunzierebbe che si è fatto un accordo per rettifiche di frontiera vantaggiose all’Italia, e non più.

Risposi, ripetendo quanto già gli esposi l’altra volta non ritenere che possa esservi in Italia un governo, né questo né un altro che si costituisse, che possegga tanta forza politica da mantenersi in piedi dopo un annunzio simile;

esso provocherebbe una esplosione del sentimento pubblico, che rovinerebbe tutto.

A parte il desiderio che ha ogni cittadino di avvantaggiare la propria patria, noi dobbiamo oggi pure prefiggerci, con questi negoziati diretti ad ottenere qualche appagamento delle aspirazioni nazionali, il compito di salvare le istituzioni e il prestigio della monarchia, e dobbiamo quindi assicurarci una forte presa sul sentimento pubblico.

Il segreto sugli accordi che si sapessero già conclusi sarebbe assolutamente impossibile.

Bülow disse che Zimmermann aveva capito da Bollati che il governo fosse consenziente in tale progetto del segreto.

Risposi che ci doveva esser stato qualche malinteso; che Bollati avrà parlato della ferma intenzione del governo di mantenere l’assoluto segreto sul fatto che si stesse negoziando e sull’oggetto dei negoziati mentre duravano;

mentre Zimmermann avrà forse capito che si trattasse del segreto da mantenere a negoziato concluso.

Bülow tornò a raccomandare che non allargassimo le nostre domande oltre al Trentino.

Ammetteva che tutto al più, di fronte a qualche discussione sul più o sul meno nel Trentino, si potesse accennare come compenso a qualche rettifica della frontiera militare verso l’Isonzo.

Occorreva soprattutto ora avviare le trattative, e la diplomazia doveva lavorare a eliminare le difficoltà e gli attriti.

Tornai ad esprimere i miei dubbi che del solo Trentino si potesse appagare l’opinione pubblica in Italia; e si potesse con ciò ottenere quel tanto di effetto politico da rendere realmente utile ed efficace l’accordo.

Riconoscevo l’opportunità di intavolare intanto il negoziato senza definire fin da principio i limiti.

Bülow appoggiò molto sulla necessità di rendere possibile agli ungheresi (Burián e Tisza) di sostenere la loro posizione, col non chiedere noi troppo.

Citò il motto italiano che il «tempo è galantuomo», quasi accennando che quel che oggi non si potesse completare, si sarebbe poi potuto un giorno raggiungere in altra occasione.

Dissi a Bülow che Avarna avrebbe avuto un primo colloquio con Burián nella giornata di domani; e che supponevo che avrebbero parlato del noto argomento.

19 gennaio.

Principe di Bülow.

Dice di aver notizie da Vienna intorno al nuovo ministro Burián, che sarebbe ben disposto riguardo all’Italia; purché da parte nostra ci sia molta misura.

Torna ad accennare alla impossibilità di far parola di Trieste.

Anche gli ungheresi considerano Trieste come il polmone dell’Impero;

si può consentire in certe contingenze a farsi tagliare il dito mignolo, ma non mai a farsi estrarre un polmone.

L’Austria farebbe qualunque sacrifizio piuttosto che cedere Trieste.

Egli stesso (Bülow) viene accusato da molti anche in Germania di essere troppo italofilo e di voler sagrificare l’Austria.

Gli accenno alle notizie che avrei, essere l’imperatore Francesco Giuseppe dubbioso tra il fare qualche cessione all’Italia, oppure il fare una pace separata con la Russia e la Serbia cedendo loro la Galizia ed altro.

Bülow mi dice esservi del vero in ciò.

Fa elogi di Bratianu il quale a Berlino ha fatto sconfessare Istrati e Diamandy nella loro propaganda guerresca.

Bülow vorrebbe che per parte della Agenzia Stefani si riproducesse a Bucarest qualche articolo pacifico di giornali italiani, per calmare le fantasie in Rumenia.

21 gennaio.

Situazione:

La missione di Wedel presso l’imperatore Francesco Giuseppe si può ritenere fallita almeno per ora.

Domani Burián va a Berlino e domenica probabilmente al quartier militare di Guglielmo e là si deciderà se il governo austriaco vorrà mettersi sulla via delle concessioni all’Italia, in altre parole di una cessione del Trentino contro l’impegno della neutralità nostra.

Intanto Bülow qui e a Vienna il principe di Wedel vorrebbero che noi definissimo due punti:

1. - la rinunzia a chiedere Trieste o l’Istria;

2. - che cosa intendiamo veramente come Trentino.

A noi non conviene definire nulla per ora;

conviene lasciar fare una offerta magari indefinita dall’Austria, dato che la voglia fare;

o almeno una dichiarazione di essere disposta a trattare della cessione di un territorio trentino, come regione italiana.

Ogni definizione oggi per parte nostra delle nostre esigenze suonerebbe come una rinunzia a tutto quello che non domandiamo, senza con ciò nemmeno accrescere per nulla le probabilità di ottenere quel tanto che domandiamo.

A Vienna da un lato si dice che non è possibile concedere o donare spontaneamente terre appartenenti all’Impero, senza nemmeno essere stati battuti, e senza nessuna costrizione esterna.

L’imperatore adopera l’espressione Staatsgebiete Verschenken, e tanto meno lo considera possibile quando si tratta di Erbländer.

Quindi impossibilità di cedere il Trentino.

Quanto a Trieste, che Bülow, Wedel, e la corte di Vienna qualificano come il «polmone dell’Impero austro-ungarico», mentre Bülow dice non esser vero che la Germania ci tiene, Wedel invece dice il contrario, affermando che anche se l’Austria volesse cederla, la Germania vi si opporrebbe.

Dall’altro lato a Vienna stessa si mostra risentimento per la pressione che sembra voler esercitare la Germania, con l’invio del principe di Wedel, per far cedere territori austriaci all’Italia.

Si dice che quand’anche si volesse fare una qualsiasi cessione, essa dovrebbe apparire come un atto spontaneo dell’Austria e non mai come un atto impostole da altri.

Ciò pel decoro della monarchia, e anche nell’interesse delle future relazioni tra l’Austria e l’Italia, dovendo questa eventualmente pel fatto del dono sentirsi vincolata all’Austria che fa il sagrificio, e non alla Germania.

E così si tira innanzi perdendo tempo, e non si decide nulla.

24 gennaio.

Sir Rennell Rodd.

Sir Edward Grey aveva tempo fa sconsigliato la Serbia dall’occupare alcun punto dell’Albania, però ora sarebbe sorto il pericolo che gli albanesi, messi su dagli austro-turchi, attaccassero la Serbia, e quindi questa aveva esposto nuovamente la necessità di occupare per sua difesa alcuni punti strategici al di là del confine, pur rimettendosi poi a guerra finita alla volontà dell’Europa.

Onde sir E. Grey non riteneva in questa nuova situazione di mantenere lo stesso punto di vista.

Risposi che ritenevo sorpassata questa fase, perché posteriormente a tali richieste della Serbia, questa aveva, secondo gli ultimi dispacci, dichiarato che pel momento non intendeva muoversi, avendo da provvedere in primo luogo ad altri pericoli più urgenti.

Non mi sembravano invero in realtà molto gravi i pericoli che provenissero dall’Albania sia per i serbi sia pei greci;

e per parte mia sconsigliavo così ai montenegrini per la Bojana (perché i francesi non si curavano affatto di mantenere libera la via di Antivari:) come ai serbi e ai greci di muoversi.

Rodd disse che, quanto ai greci, nell’ottobre scorso Grey aveva annuito ad una provvisoria occupazione dell’Epiro per parte loro, con l’intesa implicita che non tentassero di andare più oltre.

E dopo di ciò non aveva più discusso affatto di tale questione, né aveva mai consentito a occupazioni ulteriori di Berat o altro.

26 gennaio.

Principe di Bülow.

Dice che non si potrà venire ad una conclusione pratica dei negoziati con l’Austria-Ungheria relativi all’applicazione dell’art. 7 del trattato, se il governo italiano non precisa che cos’è che chiede;

poiché quello austro-ungarico teme che, concedendo qualcosa, si moltiplichino poi le esigenze, teme una Schraube ohne Ende.

Torna a raccomandare a noi di non voler stravincere.

Risposi che fintantoché il governo di Vienna non accetta esplicitamente e nettamente che la discussione si porti sul terreno della cessione di territori già oggi posseduti dall’Impero, non è possibile pretendere che noi precisiamo il quale e il quanto delle nostre richieste.

Finora da Vienna si è sempre risposto genericamente e vagamente, opponendo delle pregiudiziali, o delle obiezioni di massima.

Dichiarino essi di accettare il terreno di discussione ed io potrò allora consultare i colleghi per formulare domande precise.

Aggiunsi essere io alquanto scoraggiato sull’andamento delle cose.

La stampa ufficiosa di Vienna (esempio il «Ta geblatt» e la «Wiener Allgemeine Zeitung») facevano dichiarazioni intempestive con cui escludevano ogni possibilità di cessione di territori ora appartenenti all’Impero.

Con ciò si rendeva assai più difficile ogni eventuale concessione in avvenire.

Intanto le notizie di concentramenti di truppe austro-tedesche sui confini della Rumenia e della Serbia, chi dice per un’aggressione contro questa, chi contro quella, accennano a un nuovo pericolo che ci sovrasta, dando luogo in Italia ad un forte movimento dell’opinione pubblica a favore della nostra entrata in campo.

E intanto tre sole settimane ci separavano dalla riapertura della Camera.

Data una tale situazione che si presta a riscaldare le menti, senza che il governo abbia da opporre nulla di concreto e di positivo ad appagamento delle aspirazioni nazionali, temo agitazioni e manifestazioni tali da vincere la mano al governo.

Io mi sono adoperato vivamente per tranquillare gli animi e moderare i desideri e le speranze, e per raccomandare la fiducia nell’azione diplomatica ma mi convinco pur troppo che mentre all’interno mi sto addossando con ciò ogni giorno più gravi responsabilità politiche, all’estero ogni sforzo non approderà ad alcun risultato pratico e che, malgrado l’indubitata buona volontà, che volentieri riconoscevo, così del principe di Bülow, come del governo germanico, noi resteremo completamente bernés dall’Austria-Ungheria, con grave nocumento delle nostre istituzioni.

1° febbraio.

Per Bülow e Macchio.

Riapertura Camera si avvicina.

Governo intanto non ha nessun affidamento che si possa pacificamente ottenere qualche soddisfazione aspirazioni nazionali.

Non può quindi lavorare a calmare gli animi, portandoli su questo terreno di possibile conciliazione.

I partiti si compromettono verso una politica più violenta.

Onde un arresto successivo del movimento impresso diventa pieno di pericoli per la monarchia.

Sono pressoché due mesi dacché muovemmo questione art. 7;

e ancora oggi non si sa se governo austro-ungarico accetta per base della discussione la eventuale cessione di territori da esso posseduti e che formano obietto delle aspirazioni nazionali.

Il ministro Burián dice che sta esaminando ancora la questione di massima nel suo foro interno;

salvo poi consultare in proposito tutti i fori esterni in Austria e in Ungheria.

Ritardo non può che produrre un aumento di esigenze, di pretese e di illusioni rendendo sempre più problematica la possibilità di raggiungere un accordo.

Aperta la Camera senza che si sia fatto alcun passo più concreto in avanti, declino la responsabilità delle conseguenze, se il movimento sfugge di mano al governo.

Governi austro-ungarico e germanico si illudono che le agitazioni interne in Italia pel terremoto o pel prezzo del pane, o per altro renderebbero più difficile una entrata in azione, dividendo le forze del paese e accaparrando a sé ogni azione di governo.

La verità è che tutte queste divisioni, in cui quei governi pur troppo soffiano attivamente pel tramite dei loro consoli e del prezzolamento di vari organi della stampa, sparirebbero per incanto pel solo fatto dell’entrata in guerra la quale verrebbe così ad assumere un pregio speciale: quello di fare da diversivo, da unificatore degli animi, e da pacificatore all’interno.

Bülow mi domanda se c’è del nuovo di Burián e delle sue conversazioni con Avarna.

Gli leggo la maggior parte del telegramma n. 36 gabinetto riservato speciale.

Rilevo come tutto questo sia assai scoraggiante per chi desideri un accordo;

visto che il Burián, dopo essere andato al governo se non proprio per questa questione, almeno con piena conoscenza di essa, e dopo aver visitato il quartier generale tedesco e aver discorso della questione stessa con l’imperatore Guglielmo e col governo germanico, oggi non ha altro da dirci che di aver bisogno di esaminarla ancora con calma nel suo foro interno salvo poi dibatterla in tutti i fori esterni austriaci e ungarici.

Ripeto a Bülow dietro sue interrogazioni: che preciserò le nostre domande solo quando sapremo se Austria-Ungheria accetta come terreno della discussione che si tratti di cessione di territori oggi posseduti dalla monarchia e che fino a quel giorno non preciserò né escluderò nulla, né riguardo al Trentino né riguardo a Trieste o all’Istria o ad altro; e che lo pregavo di raccomandare a tutti di far presto a decidersi;

perché più si aspetta e più la cosa diventa difficile, e più cresceranno le esigenze.

Bülow prese nota di tutto ciò, dandomi ragione in massima.

Egli però crede che le osservazioni di Burián non tolgano la speranza di una riuscita delle trattative.

Ottener parecchio con la neutralità.

Dirlo lo rende più difficile, perché solo il pericolo del contrario può far ottenere le concessioni.

Se ciò malgrado si ottiene qualcosa, avendo fatto credere che si poteva fare di più, dà luogo a malcontento.

E se poi non si ottiene nulla, avendo creata una grande illusione produce una fortissima reazione con pericolo per le istituzioni.

3 febbraio.

Barone Krupenski.

Mi comunica i ringraziamenti del suo governo per l’opera prestata in Turchia per la difesa e la liberazione dei consoli russi.

Mi informa che le tre potenze dell’Intesa hanno fatto un passo formale presso la Grecia, la Serbia e il Montenegro perché non si muovessero verso l’Albania invadendone alcun territorio;

avrebbero avuto dichiarazioni rassicuranti.

Il governo russo confidava che anche l’Italia non avrebbe modificata la sua linea d’azione come risultava dalle sue precedenti dichiarazioni e non avrebbe estese le sue occupazioni in Albania.

Risposi che nulla vi era di nuovo per parte nostra, e che ci attenevamo strettamente a quanto avevamo già ripetutamente dichiarato in proposito.

A questo riguardo informavo Krupenski che il Montenegro aveva mandato a Essad una dozzina di artiglieri con due mitragliatrici;

e suggerivo che sarebbe bene consigliare il Montenegro, data la sua qualità di belligerante, a non seguitare su questa via e mandare altri militari, perché ciò avrebbe potuto dare motivo all’Austria-Ungheria di fare qualche movimento in senso inverso, complicando ai nostri riguardi la situazione in Albania.

Ciò dicevo pel desiderio che avevo di mantenere la nostra azione strettamente entro i limiti fin qui segnati.