Voci della Grande Guerra

La guerra alla fronte italiana fino all’arresto sulla linea della Piave e del Grappa: 24 maggio 1915-9 novembre 1917 vol. 1 Frase: #28

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AutoreCadorna, Luigi
Professione AutoreMilitare
EditoreTreves
LuogoMilano
Data1921
Genere TestualeMemorie
BibliotecaUniversity of Toronto Library (Internet Archive)
N Pagine TotVI, 307
N Pagine Pref6
N Pagine Txt307
Parti Gold[27-39] + [40-70]
Digitalizzato Orig
Rilevanza3/3
CopyrightNo

Contenuto

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Il fondamento più solido della potenza di un popolo è la disciplina sociale, che consiste nell’assoggettamento dell’individuo allo Stato, nel volontario sacrificio di una parte della libertà individuale nella misura in cui tale sacrificio sia necessario per il bene collettivo.

Questa disciplina sociale si manifesta coll’ordine, coll’osservanza delle leggi, col rispetto delle autorità che tali leggi devono fare eseguire.

Quanto più la disciplina sociale è salda, tanto più il paese è forte, poichè esso allora rimane unito ed obbediente nella mano di chi lo dirige.

Questa profonda disciplina fu la principale forza della Germania, quella che le permise di tener testa per tanto tempo alla potente coalizione nemica.

Inoltre, poichè i colossali eserciti moderni non sono che la nazione in armi coi suoi elementi più validi, e tali eserciti, pel loro subitaneo e grandissimo ampliarsi allo scoppio della guerra, sono in gran parte improvvisati, consegue che quale è la disciplina del Paese, tale è quella dell’esercito.

E quando tale disciplina interiore, che proviene da lunga educazione, manchi o sia scarsa, non si può ad essa supplire con un severo ma improvvisato sistema di disciplina esteriore, che già non sia radicato nel sentimento e nelle abitudini di coloro che debbono farla osservare;

poichè l’azione personale del Comando supremo perde della sua efficacia nei grandi eserciti moderni in ragione della vastità dell’organismo e della molteplicità degli organi da lui dipendenti.

Finalmente, una disciplina esteriore anche molto severa, ma che non sia accompagnata dalla disciplina interiore, quando sorgano straordinarie contingenze, quando occorra reagire contro eccezionali forze dissolventi come quelle, ad esempio, che ci condussero a Caporetto, non basta a mantener salda la compagine degli eserciti ed a conservare al complesso organismo tutta la sua potenza.

Ora, ripeto, non ci si può ripromettere di trovare nell’esercito la disciplina interiore se essa non sia posseduta dal Paese, e rinsaldata da una virile educazione.

Ora in Italia, nè l’una cosa, nè l’altra, esisteva.

L’indisciplina è male antico.

L’epoca dei Comuni, splendida sotto altri riguardi, nella quale così fortemente pulsava la vita individuale che andava elaborando le meraviglie del Rinascimento, era pur quella nella quale l’un l’altro si rode di quei che un muro ed una fossa serra.

Il Tasso, accennando alla virtù latina, dice che ad essa nulla manca o sol la disciplina, come se l’assenza di disciplina in un popolo fosse piccola manchevolezza:

E si potrebbe risalire all’antica Roma, dove il sentimento individualistico, altrettanto sviluppato quanto ai nostri tempi, avrebbe paralizzato la forza di espansione di quel gran popolo, se non fosse stato contenuto da una forte disciplina statale, la quale, mantenendo in giusta armonia la potenza dello Stato e le qualità individuali della stirpe, rese quel popolo capace di così grandi cose.

Nelle epoche successive poichè le qualità individuali, rimaste le medesime, non furono contenute nei loro eccessi da una forte educazione e dalla potenza statale, l’Italia è rimasta nave senza nocchiero in gran tempesta.

Sopravvennero i secoli della servitù, non certo favorevoli allo sviluppo dei caratteri in quella che doveva poi essere la classe dirigente, e per conseguenza educatrice, della nuova Italia, tanto che Massimo d’Azeglio sintetizzava a questo riguardo il suo pensiero colla celebre frase:

abbiamo fatto l’Italia, facciamo gli Italiani.

Ora, cosa è stato fatto nell’ultimo sessantennio, dacchè l’Italia è risorta così rapidamente ad unità di nazione, per educare il Paese alla disciplina sociale che, come già dissi, costituisce il fondamento della potenza di un popolo:

L’istruzione superiore ha certamente ricevuto un notevole sviluppo.

L’istruzione popolare ha diminuito il notevolissimo numero degli analfabeti, ma non in quella misura che sarebbe stata possibile e necessaria.

Ma l’istruzione non può essere fine a sè stessa, bensì mezzo per assurgere a più grande altezza morale.

Perciò non solo essa è inutile, ma è dannosa se il fine cui serve è perverso:

il che sempre accade ogni qual volta essa non sia accompagnata da una salda educazione.

Ma educare significa sviluppare il sentimento del dovere, ed è questa una parola inefficace, senza base, se si fa astrazione dalla fonte da cui l’idea del dovere emana, cioè dal concetto del divino.

Ora, essendosi menata la scure senza risparmio alle radici del sentimento religioso, che è il freno più efficace, anzi il solo veramente efficace al dilagare delle umane passioni, non possono meravigliare le conseguenze:

tutti parlano di diritti, pochi di doveri;

si pretende perciò una libertà sconfinata per sè stessi, poco curando se questa urti e limiti la libertà altrui;

di conseguenza è scaduto il rispetto alla legge ed alla autorità del Governo, che ha il dovere ma non la forza di farla osservare;

libere rimangono la predicazione e la diffusione delle teorie più antisociali;

conseguenza ultima di tutto ciò è l’accrescimento a dismisura dell’indisciplina sociale già radicata nel sangue per ragione atavica;

anzi, convertita questa in vero spirito di rivolta, allargatosi dal popolo agli impiegati dello Stato, invero economicamente mal trattati, ma che avevano finito per credere lecito qualsiasi mezzo per dar l’assalto al bilancio dello Stato:

Ed al disopra di tutto ciò Governi deboli, la cui preoccupazione principale era quella di navigare abilmente tra i marosi della Camera per reggersi al potere:

Conseguenza del divampare di tale spirito di rivolta, fu l’aperta predicazione del così detto antimilitarismo, che altro non era se non la rivolta contro le istituzioni militari, le sole cioè che potessero opporre una diga al dilagare del disordine.

E se ne facevano spesso banditori coloro stessi che provocavano l’Austria con dimostrazioni irredentiste, come se avessero potuto poi tener testa ad una grande potenza militare, salda per antiche tradizioni, colla rettorica in cui erano maestri:

Parecchi di coloro che più avevano sbraitato contro il militarismo e le spese militari, dichiararono poi, dopo lo scoppio della guerra europea, di essere pronti a votare qualunque somma, anche di miliardi, per l’esercito;

come se fosse possibile spendere utilmente dei miliardi in pochi giorni per un organismo che richiede cure lente, assidue e continuate:

Quali fossero gli effetti pratici di questo antimilitarismo che veniva bandito dal basso e dall’alto, lo disse molto bene il compianto generale Luigi Majnoni d’Intignano, che ha lasciato nell’esercito vivo ricordo di sè per la sua capacità e per la sua franchezza militare.

In un articolo sul Corriere della Sera del 29 settembre 1910, scritto per dimostrare la necessità dell’educazione preventiva in relazione alla brevità della ferma così egli si esprimeva:

«Ma pur troppo l’educazione nazionale da noi è trascurata, mentre è lasciato libero il passo ai sovversivi di qualunque specie;

onde io giudico vana illusione il credere che quelle poche lezioni settimanali di morale che fanno i nostri capitani, e quelle un po’più frequenti ma frammentarie dei subalterni, sempre turbate dai servizi di pubblica sicurezza, nel periodo di due anni, e talvolta di uno, bastino a trasformare un cittadino in un guerriero, animato dal sentimento del dovere e dal fuoco sacro della patria, pronto a sacrificarsi per essa.

V’è una parte del nostro pubblico, alquanto ingenuo, che, per aver letto i bozzetti del De Amicis, i romanzi dell’Olivieri San Giacomo, o altri scritti poetici, crede ancora che i nostri soldati siano quali ce li rappresentano quelle anime d’artisti, a scopo educativo, non vedendoli che molto da lontano.

I nostri soldati sono giovani che portano con loro le caratteristiche degli altri cittadini appartenenti alle varie classi sociali da cui essi pervengono.

Sono perciò per la massima parte antimilitari.

«Come tali vengono mal volentieri alle armi, fanno il loro dovere, quando lo fanno, per tema di punizioni o per non aver noie, trattandosi di un breve periodo;

ma appena lasciano il servizio tornano ad essere quelli di prima.

Chi osserva la gioventù che da circa un ventennio (dopo, cioè, chiusa l’epopea del nostro riscatto) produce questo stesso nostro suolo, giungere alle armi scettica e sfiduciata, e nelle sue canzoni inspirarsi al volgare desiderio di lasciare il servizio, o alle sofferenze per i disagi della vita militare, non può rimanere indifferente dinanzi ad un cambiamento tanto notevole, e deve correre col pensiero al pericolo che esso può causare, se un esercito avversario attentasse alla nostra indipendenza.»

In Francia si sono avuti, dal più al meno, gli stessi fenomeni che ho messo in rilievo per l’Italia, ma con due grandi correttivi che ne hanno mitigato le conseguenze sulla guerra:

un forte spirito nazionale sviluppatosi e mantenutosi attraverso i secoli, mentre in Italia, che pure è paese di recente unità, poco si è fatto nella scuola per rinsaldarlo;

ed inoltre un esercito di secolari e grandissime tradizioni militari.

A noi questi due correttivi pur troppo mancavano;

e perciò, le naturali ottime qualità del nostro popolo, anche per colpa delle classi dirigenti che, invece di assecondarle e rivolgerle a continuo miglioramento, agirono spesso a rovescio, non diedero quel frutto che potevamo riprometterci.

Si tenga conto finalmente del fatto che la necessità della guerra fu compresa solo da una minoranza intellettuale della nazione e da essa voluta, mentre fu osteggiata da una parte dei partiti estremi e dal partito capitanato da colui che per tanti anni aveva esercitato una vera dittatura;

la quale avrebbe potuto essere benefica, se fosse stata unicamente rivolta al bene del Paese, mentre servì solo a maggiormente guastare i costumi parlamentari, a screditare le istituzioni e a corrompere l’anima nazionale.

Ne conseguì che allo scoppio della guerra e durante la guerra venne a mancare nel Paese quella concordia, quella unione sacra la cui assenza doveva rendere più arduo e ritardare il trionfo delle nostre armi.

Per questa ragione e per tutte quelle che ho precedentemente enumerate, devo venire alla non consolante conclusione che l’Italia era, nel suo complesso, moralmente impreparata ad una così grande impresa quale era quella che l’attendeva, ed alla quale non poteva rimanere estranea.

Ho detto nel suo complesso, cioè come organismo, poichè tutti debbono riconoscere che non scarseggiavano nel Paese gli elementi ottimi, nel campo della intelligenza e della coltura, come la guerra ha dimostrato, specialmente tra i giovani, pieni di slancio e di patriottismo, che chiara avevano la visione ed ardente il desiderio di un’Italia grande e potente;

ma essi erano molecole, per quanto numerose, ancora disgregate, epperò incapaci di imporsi all’Italia ufficiale e tradizionale, prodotto e rappresentante delle vecchie forze dissolvitrici.

Ma ciò che non ha potuto avvenire prima della guerra e nell’immediato dopo guerra, dovrà accadere poi, poichè questa gioventù sulla quale è caduto il peso principale della guerra, che ha strenuamente combattuto coll’ideale di una grande Italia, e che ha rappresentato le virtù di valore e di sacrificio del popolo italiano, ha certo maggior diritto di governarla che non la decrepitezza fisica o morale che è stata fino ad ora troppo spesso prediletta nelle sfere del potere.

Appunto da questa gioventù, rappresentante delle rinnovate energie nazionali, in seguito al disastro, è partita la reazione che ha determinato l’arresto del nemico, già vittorioso, sulla Piave.

Dalla medesima gioventù debbono venire le grandi idee inspiratrici ed animatrici della Nazione, senza delle quali non vi può essere un popolo forte: forte nello sviluppo, forte nella resistenza contro l’imperversare delle procelle.

Poichè queste idee non possono germogliare nella morta gora dello scetticismo, delle ipocrisie, degli opportunismi e di tutte le scorie dei secoli della servitù;

ma solo allignano laddove si accende la fiamma interiore dei grandi ideali, ed è tenuto in sommo pregio il carattere, fondamento del quale è quello spirito di verità, che ad ogni passo vien predicato dal misconosciuto Vangelo.

«Affermiamo (ha giustamente scritto il grande poeta polacco Mikievicz nel libro Gli Slavi), affermiamo che l’uomo il quale, per sua sventura, ha soffocato nell’orgoglio e lasciato spegnere nell’apatia questa fiamma interiore, l’uomo che non è più sensibile a ciò che è alto e generoso, è incapace di libertà.

Caricatelo di ogni sorta di carte costituzionali:

sarà sempre uno schiavo.»

Solo adunque alla condizione di risvegliare questa fiamma interiore, la nostra terra potrà tradurre ancora una volta in realtà le fatidiche parole di Niccolò Macchiavelli, che essa «pare nata per risuscitare le cose morte.»

Il regime costituzionale, importato dall’Inghilterra ove è nato, e dove ha trovato per lunghi secoli un terreno adatto per prosperare e svilupparsi, è in teoria, un regime perfetto, e lo sarebbe anche nella pratica se si riuscisse a mantenere l’armonico funzionamento dei vari poteri, rimanendo ciascuno nell’orbita che dalla costituzione gli è assegnata, e conservando, per conseguenza, l’equilibrio dell’intero sistema.

Ma se, per il naturale corrompersi di tutte le istituzioni umane, avvenga che il potere sovrano sia, a poco a poco diminuito nelle facoltà conferitegli dallo Statuto, che la Camera elettiva prenda il sopravvento su quella vitalizia (dove pur si trovano le più alte competenze in ogni ramo) e diventi onnipotente facendosi arbitra assoluta della sorte dei Ministeri, pur essendo schiava delle clientele elettorali e degli interessi locali, a scapito di quelli nazionali;

se, tutto ciò accade, evidentemente l’equilibrio del sistema si rompe e ne nasce quella degenerazione che si suol chiamare parlamentarismo, deplorata da cinquant’anni e che, con moto accelerato, è sempre andata aggravandosi, specialmente dopo la così detta rivoluzione parlamentare del 18 marzo 1876.

Nè, tale onnipotenza può essere scusata col dire che la Camera rappresenta la Nazione, poichè tale finzione costituzionale è spesso contraddetta dal fatto, dal divario cioè tra le manifestazioni dell’opinione pubblica e quelle della Camera:

troppe prove evidenti ne abbiamo avute, specialmente allo scoppio della guerra e durante la medesima.

Mi diceva un esimio scrittore francese che se si fermassero le prime 600 persone che passassero per uno qualunque dei ponti della Senna, esse rappresenterebbero molto meglio la Francia dei 600 del Palazzo Borbone.

Non sarebbe andato molto lontano dal vero, io credo, chi avesse applicate queste parole ai ponti del Tevere:

Non istarò a discorrere delle conseguenze che la degenerazione del regime costituzionale ha avuto:

tutti le conoscono.

Questo libro è dedicato alla guerra, e solo di ciò che sullo svolgimento della medesima ha avuto effetto io mi occupo.

Mi limito ad accennare le conseguenze che si sono manifestate;

esse sono le seguenti:

Una Camera, eletta ai tempi della dittatura giolittiana, in buona parte contraria alla guerra, che dovette subire perchè imposta dalla miglior parte dell’opinione pubblica.

Questo contrasto tra il Parlamento e quella parte dell’opinione pubblica che aveva imposto la guerra, influì non poco a mantenere il dissidio nel Paese;

questo contribuì alla sua volta in larga misura a creare la situazione morale, che andò lentamente maturando e della quale discorrerò a suo tempo.

L’instabilità dei Governi, abituale in pace, sebbene con gravi conseguenze sulla vita pubblica, si è perpetuata in guerra, quando la continuità ed il vigore dell’indirizzo sono una necessità imprescindibile.

Così abbiamo veduto, durante la guerra, succedersi tre Governi in Italia e quattro in Francia, finchè quivi arrivò finalmente al potere l’energico Clémenceau, che non aveva una maggioranza in Parlamento, ma che fu voluto dall’opinione pubblica.

Il capo del Governo veniva scelto secondo criteri parlamentari, non già tenendo esclusivamente conto delle necessità della guerra.

Avvenne così che poterono giungere al potere uomini deboli, talvolta debolissimi, perciò in balìa di tutte le correnti.

Ed essendo essi scarsi o privi di autorità, ed esposti ad essere da un momento all’altro travolti da un voto contrario della Camera, erano costretti a fare i conti cogli umori di questa, e per conseguenza a preoccuparsi più della Camera che delle incalzanti necessità della guerra;

quando pure non accadesse che dei Ministri, per prepararsi la scalata al supremo potere, fornicassero coi partiti avversi alla guerra, ripagando il loro favore coll’estrema tolleranza verso i nemici interni i quali stavano preparando quello stato di cose che ebbe poi così fatali conseguenze:

Si consideri infine che il regime parlamentare è il sistema delle deliberazioni collettive, dei mezzi termini, delle transazioni, degli accomodamenti, e si dica quanto esso sia adatto ai periodi storici nei quali si richiedono rapidissime decisioni ed autorità assoluta per attuarle, e come poco acconci siano ad assumere il supremo potere gli uomini che in quell’ambiente abbiano compiuta la loro educazione politica, a meno che, essendo persone eccezionali, conservino le loro naturali qualità di uomini di azione malgrado l’ambiente nel quale hanno vissuto.

Ma di queste non ne abbiamo pur troppo vedute.

Farei opera del tutto vana, tanto la cosa è evidente, se mi accingessi a dimostrare la necessità di concentrare in una sola mano, nei momenti difficili, l’azione politica, come in una sola mano deve essere riunita l’azione militare.

Quando il tempo incalza e si richiedono rapidissime decisioni, spesso audaci, queste non possono essere prese che da un solo, il quale, insieme alla necessaria larghezza di vedute, possegga il coraggio della responsabilità.

Nei consessi invece la responsabilità si diluisce tra molti;

essi sono poi di loro natura lenti, non concordi, tendono verso il partito più prudente, mentre vi sono casi in cui, il partito più prudente è proprio quello che sembra il più audace.

L’inconveniente è attenuato (solo attenuato) quando essi sono presieduti da un uomo superiore per intelligenza e per carattere, il quale, avendo acquistato un grande ascendente, diventa un vero dittatore, non di diritto, ma di fatto.

Ma tali uomini sono molto rari, e per contro accade che, per i reciproci contrasti e per le invidie, le personalità più spiccate siano spesso escluse, e siano invece portati alla testa uomini mediocri, senza energia e senza volontà, i quali non danno ombra a nessuno, ma neppure conferiscono un carattere proprio al consesso cui presiedono, e lasciano invece prevalere la volontà dei singoli che ne fanno parte.

Tale fu ad esempio il Ministero così detto nazionale, salito al potere nel luglio 1916.

Cosa esso abbia prodotto, specialmente nella politica interna, sarà narrato dalla storia.

In conclusione, non si può certamente affermare che il regime parlamentare sia stato, agli scopi della guerra, tutto ciò che di meglio si poteva desiderare, con grande dolore di tutti quanti alle istituzioni sono sinceramente devoti.

Date le condizioni generali del Paese, sarebbe stato necessario far guerra corta e grossa.

Il farla grossa da noi dipendeva, e si vedrà nei seguenti capitoli come si sia giunti, nel 1917, a sfruttare tutte le risorse del Paese, malgrado le resistenze del Governo, il quale, preoccupato da considerazioni finanziarie, non ebbe subito la comprensione esatta della necessità di proporzionare lo sforzo alla potenzialità del Paese e alle esigenze della guerra.

Ma, a farla breve, mancava soprattutto il lungo apparecchio che produce una presta vittoria, per dirla con una scultoria frase di Raimondo Montecuccoli (Opere, vol. II, pag. 103).